Quattro anni a Palazzo dei Marescialli
Camerino, 19 novembre 2015
Intervento del Dott. Aniello Nappi
Quando si tenne alla Luiss di Roma la presentazione del mio libro sul CSM (Quattro anni a Palazzo dei marescialli – Idee eretiche sul Consiglio superiore della magistratura), il Vicepresidente Legnini esordì in funzione difensiva del Consiglio, domandando: “Ma chi ha mai parlato bene del Consiglio?”; e qualcuno gli fece eco, rilevando che in effetti il CSM non ha mai goduto di buona stampa.
Sicché ci si domanda dov’è l’eresia, se del CSM si è sempre parlato male.
Sennonché non mi sarei di certo scomodato, non avrei dedicato un’estate a mettere giù queste memorie, solo per parlar male del Consiglio. Ho invece inteso proporre una ben precisa diagnosi di un problema, che definisco come crisi di credibilità, come declino del Consiglio, individuandone la causa nella sindacalizzazione delle correnti dell'Anm, con la trasformazione del Consiglio in una sorta di condominio sindacale.
Considero questa una degenerazione, non perché ce l’abbia con i sindacati, ma per una ragione molto semplice e banale. Il Consiglio Superiore della Magistratura è un particolare ufficio del personale: gestisce la carriera, la mobilità, la valutazione di professionalità dei magistrati. Occorrerebbe domandarsi allora perché per questa attività di gestione del personale, che in altri uffici pubblici o nelle aziende private è svolta dall’amministrazione, da un consiglio di amministrazione, si scomoda il Presidente della Repubblica e si mette su un organo di rilevanza costituzionale. E la risposta è evidente: perché è chiaro che nel momento in cui si decide del destino professionale di un magistrato, del suo trasferimento piuttosto che della sua valutazione di professionalità, c’è il rischio di condizionarne l’attività giurisdizionale. Si rischia dunque di mettere in discussione l’essenza stessa dell’attività giurisdizionale, che è nella sua indipendenza e nella sua terzietà. È questo che giustifica l’esistenza del Consiglio Superiore della Magistratura.
Tuttavia se le componenti togate del CSM, che sono elette sulla base delle indicazioni dell’Associazione nazionale magistrati, sono formate di sindacalisti, viene fuori un palese conflitto di interesse. Tutti comprendono che il sindacalista non può essere l’amministratore del personale, perché avrebbe due parti in commedia: quella della tutela del lavoratore e quella della gestione del lavoratore. Questo determina una situazione insostenibile. Ed è qui la mia denuncia, fondata su una diagnosi precisa.
Non parlo genericamente di degenerazione, perché la degenerazione delle istituzioni pubbliche, non solo nel nostro Paese, è un fenomeno al quale purtroppo ci siamo abituati. E parlare genericamente di degenerazione non avrebbe giustificato che si scrivesse un libro sul CSM.
Il problema del Consiglio è dunque nella sindacalizzazione della sua componente togata. E questo comporta moltissime conseguenze negative, perché la missione del Consiglio sarebbe quella di tutelare il giudice come istituzione. I sindacalisti tutelano invece il lavoratore, non il giudice; e non sempre le due posizioni si sovrappongono. Molto spesso la tutela del lavoratore contraddice gli interessi e la funzionalità dell’istituzione.
Si determina inoltre una burocratizzazione dei magistrati. La sindacalizzazione nella gestione del personale ne comporta la burocratizzazione, perché si privilegia il rispetto delle garanzie destinate a tutelare il lavoratore anziché le garanzie dell'istituzione giudiziaria. Il giudice, ciascun giudice, è un’istituzione, di cui va garantita l’indipendenza e l’autonomia, oltre a essere un lavoratore, cui vanno riconosciute tutele economiche e “contrattuali”. Al Consiglio superiore della magistratura non è demandata però la tutela economica e contrattuale del magistrato lavoratore, bensì la ricerca di un equilibrio tra garanzie individuali dei magistrati ed efficienza dell’istituzione giudiziaria. Le garanzie individuali dei magistrati, che attengono all’ambito del loro ruolo istituzionale, vengono invece sempre più interpretate all’interno del CSM in termini di garanzie sindacali del lavoratore magistrato.
Tutto questo accade per di più in un momento in cui il ruolo del giudice va sempre più enfatizzandosi.
Una volta il giudice doveva essere solo il mediatore tra il caso concreto e la norma di diritto, espressa di regola in una legge. La situazione è oggi radicalmente mutata. Viviamo oggi una moltiplicazione degli ordinamenti, dalla Convenzione europea diritti dell’uomo al diritto dell’Unione Europea; e una moltiplicazione delle corti, dalla Corte europea di giustizia alla Corte europea dei diritti dell’uomo alla Corte costituzionale. Si pensi solo alla recente sentenza europea sul caso Contrada, quale esempio di riconoscimento della funzione normativa della giurisprudenza, a proposito della punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa.
Sicché oggi il diritto lo fanno sempre di più i giudici.
Cresce perciò l’esigenza di un approccio sempre meno burocratico alla funzione giudiziaria, nel momento stesso in cui si burocratizza invece sempre di più la posizione del giudice. È come lo spostamento della crosta terrestre, la deriva dei continenti nella teoria della tettonica delle placche. Le nostre istituzioni giudiziarie sono sollecitate da due spinte opposte: da una parte la burocratizzazione, provocata dalla gestione sindacalizzata del Consiglio, dall’altra la spinta di tutto il sistema, anche sovranazionale, verso un’assunzione sempre maggiore di responsabilità del giudice come produttore di norme. Temo che ne possa venir fuori un sommovimento istituzionale, che metterà a rischio le tradizionali garanzie del nostro sistema giudiziario.
Quando in questo Paese la politica avrà finalmente conquistato il suo primato, non accetterà più che il piccolo sindacato di una corporazione burocratizzata rivendichi un ruolo di autonomo interlocutore istituzionale senza assumersene anche le responsabilità.
Così sarà a rischio non solo il destino di qualche magistrato, ma sarà a rischio la tenuta dello stesso sistema democratico.
Per far fronte a questo rischio, occorre che la magistratura associata recuperi al più presto l'orizzonte culturale di un tempo.
E’ opportuno a questo punto domandarsi in che senso il Consiglio tutela il magistrato come lavoratore piuttosto che come giudice, come istituzione.
Gli esempi sono tanti.
Prendiamo il caso dell’incompatibilità parentale tra magistrati e avvocati. La legge prevede tre criteri per definirla: la natura delle materie (penale, civile o lavoro), la dimensione dell’ufficio e l’importanza, l’intensità del lavoro dell’avvocato. Questi sono i tre criteri che detta la legge, per stabilire quando un magistrato non può svolgere le sue funzioni nella stessa sede in cui opera un suo congiunto esercente la professione forense. Questa legge viene interpretata nel senso che basta che risulti favorevole uno soltanto di questi criteri per escludere l’incompatibilità. Insomma, se il magistrato è coniuge dell’avvocato più importante del piccolo tribunale, purché l’uno si occupi di diritto civile e l’altro di diritto penale, si esclude l’incompatibilità. Se fosse invece richiesto l’esito favorevole di tutti e tre i criteri, non solo la differenza delle materie, ma anche le dimensioni dell’ufficio e l’intensità dell’attività lavorativa, dovrebbe in un caso del genere riconoscersi l’incompatibilità. Contrariamente a quanto sarebbe stato ragionevole attendersi, invece, è stata respinta la proposta di considerare necessariamente concorrenti i tre criteri.
E’ questa una tipica applicazione sindacale di una norma, perché tende a tutelare l’interesse del lavoratore anziché dell'istituzione. Tende a tutelare gli interessi di chi fa il magistrato nel luogo dove è nato, dove abita. Ed è comprensibile che, se arriva un congiunto a fare l’avvocato, è duro dover cambiare sede. Sennonché la logica sindacale è incompatibile con la logica istituzionale. Non perché i sindacati siano cattivi. Ma perché i sindacati debbono essere l’interlocutore dell’istituzione, non possono sostituire l’istituzione.
Le delibere del Consiglio sono pubbliche. E secondo la legge sulla privacy, quando si tratta di un pubblico funzionario, di chiunque eserciti funzioni pubbliche, tutto deve essere controllabile e deve essere conoscibile, tutto ciò che attiene alla carriera e all’attività di chi svolge funzioni pubbliche. Benché tanto preveda la legge, non è stato possibile ottenerlo. Si è detto che soltanto la delibera è pubblica, ma i documenti sui quali la delibera si fonda non sono pubblici. Mentre è evidente che, se non si può accedere ai documenti, non si può controllare criticamente la delibera.
In realtà il Consiglio si dà regole molto rigide per le sue decisioni, detta criteri di decisione molto rigorosi, che agevolano le risposte negative. Una decisione che può determinare scontento risulta così giustificabile come inevitabile. Quando però la domanda alla quale bisogna dare risposta viene da chi è vicino agli apparati sindacali, allora il consiglio si riconosce esplicitamente il potere di derogare all’eccessiva rigidità dei suoi stessi criteri. Ed è chiaro che, se si riconoscesse il controllo dei documenti oltre che della delibera, risulterebbe palese la singolarità della deroga.
Veniamo così ad un altro aspetto, perché poi tutto si tiene. Ci sono circa 450 magistrati, tra i 400 e i 500 magistrati, che hanno esoneri dal lavoro, totali o parziali. Ad esempio gode giustamente di un parziale esonero dal lavoro chi fa parte del Consiglio giudiziario. Ma un parziale esonero dal lavoro è riconosciuto anche ai cosiddetti RID, referenti informatici distrettuali, ai formatori decentrati, e via elencando. Questi incarichi, che hanno il vantaggio di ridurre l’impegno nel lavoro giudiziario, sono distribuiti su indicazione delle correnti dell’ANM. È uno dei mezzi per creare un piccolo ceto dei sindacalisti, con la conseguenza di una separazione sempre più netta da tutta la magistratura reale, dai tanti magistrati di prim’ordine, di grandissimo valore, che in questo contesto non contano assolutamente nulla.
Negli anni in cui le correnti dell’associazione avevano un contenuto progettuale, programmatico, c’erano idee diverse sul ruolo del magistrato, sulla funzione dell’interpretazione della legge, E fu questa diversità di orientamenti culturali a determinare la nascita delle correnti dell’Associazione.
La sindacalizzazione ha oggi portato all’omogeneizzazione su quasi tutte le questioni di principio.
Si è discusso ad esempio di quali conseguenze debba avere la mancata osservanza del calendario del processo, uno strumento di efficienza dell’istituzione giudiziaria. E tutti i gruppi sono stati d’accordo nel dire che non debba avere conseguenze disciplinari, indipendentemente dalla considerazione delle conseguenze sulla funzionalità del sistema, perché del funzionamento del processo al sindacalista non interessa molto. Al sindacalista interessa tutelare il magistrato lavoratore che, se non ha rispettato il calendario, non deve andare incontro a una responsabilità disciplinare.
Sulla questione della partecipazione dei magistrati alle commissioni d’esame degli avvocati, necessaria per favorire una comune cultura forense, si è detto che non può essere considerata obbligatoria, perché ancora una volta prevale l'interesse del lavoratore sull'interesse dell'istituzione. E così sul problema dell’incompatibilità parentale tra magistrati (si ammette che due coniugi svolgono le proprie funzioni all’interno della stessa Procura della Repubblica, anche se di piccole dimensioni); sul problema del rapporto tra condanna disciplinare e valutazione di professionalità (si esclude che il giudicato disciplinare possa in qualche misura vincolare la valutazione di professionalità); sul livello massimo di “carichi esigibili” di lavoro (si tende a fissarlo in misura eguale per tutti, con un livellamento verso il basso della professionalità dei magistrati, perché la logica sindacale non ammette che si diano occasioni per distinzioni e comparazioni di merito).
In questo senso si può dunque affermare che la sindacalizzazione determina un conflitto d’interessi, perché la gestione del personale non può essere affidata a chi il personale lo tutela come lavoratore. È infatti questa logica individualistica e sindacale che ha portato anche a una degenerazione del rapporto con il giudice amministrativo, soprattutto, ma non solo, nel conferimento degli incarichi direttivi.
In realtà dovrebbe essere scontato che l’incarico direttivo non è previsto per permettere ai magistrati di fare carriera; è previsto per far funzionare gli uffici. E tra l’altro comporta tali e tanti impegni di lavoro, aggiuntivo è diverso, che richiederebbe una notevole dose di altruismo.
Se nella scelta dei magistrati ai quali affidare gli incarichi direttivi si segue una logica individualistica, intesa a soddisfare le aspirazioni del lavoratore piuttosto che le esigenze dell’istituzione, è evidente che il giudice amministrativo, abituato appunto a tutelare gli interessi individuali nei confronti della Pubblica Amministrazione, non potrà non riconoscere ai magistrati una sorta di diritto alla carriera. Solo se il CSM fosse in grado di esprimersi secondo una logica istituzionale, anche il giudice amministrativo avrebbe dei problemi a garantire i singoli piuttosto che la istituzione. Invece il giudice amministrativo è giunto ad affermare che, se il presidente di un tribunale trasferiva alla sede centrale una grande quantità di cause di una sezione distaccata, ledeva illegittimamente gli interessi dell’ufficio periferico. Mentre sarebbe stato più plausibile garantire gli interessi della funzionalità dell’ufficio, anziché del gruppo locale di avvocati che protestava contro quel provvedimento.
Da questo sistema, da questo cambiamento della logica della partecipazione e della selezione dei componenti del Consiglio, deriva poi tutto il resto; deriva anche l’inefficienza degli uffici, perché tutto è destinato a tutelare i singoli piuttosto che le istituzioni.
Si sono avute in particolare conseguenze estremamente negative e preoccupanti nell’interpretazione della disciplina dell’organizzazione degli uffici di Procura. Benché la legge dica chiaramente che il procuratore della Repubblica può revocare l’incarico a un sostituto anche per un mero dissenso sulla conduzione e conclusione delle indagini, si sostiene che il procuratore della Repubblica, nel momento in cui ha assegnato il procedimento, ha consumato il suo potere. I sostituti rivendicano, senza alcun fondamento, le stesse garanzie di precostituzione e tendenziale immutabilità che la Costituzione prevede per il giudice. E il CSM tende, almeno nelle proclamazioni di principio, ad assecondare questa rivendicazione, rinunciando così a ricercare un equilibrio ragionevole tra le garanzie individuali dei magistrati e le esigenze di funzionalità degli uffici. Certo, è necessario un controllo del CSM sugli interventi del procuratore della Repubblica, ma non è ammissibile una così palese elusione del testo legislativo.
I rimedi a questa situazione di crisi vanno ricercati soprattutto sul piano culturale. Ma interventi normativi sono comunque auspicabili.
Le soluzioni sono necessarie innanzitutto con riferimento al sistema elettorale dei togati e ai criteri di scelta dei laici.
In realtà nella selezione della componente laica si tende a predeterminare la nomina del Vicepresidente. I partiti politici vogliono decidere preventivamente chi dovrà essere il Vicepresidente, benché ne sia prevista l’elezione da parte dell’Assemblea, dopo l’insediamento del consiglio.
E’ certamente opportuno che il compito del Vicepresidente sia affidato a un politico, perché si tratta di un ruolo appunto politico, che richiede una specifica professionalità. Ma la pretesa di predeterminare la scelta del Vicepresidente comporta che i segretari dei partiti coinvolti prendano contatto con i responsabili delle correnti, con evidenti problemi per l'autonomia dei singoli consiglieri. E poiché gli accordi preliminari non sono abbastanza garantiti, si sceglie come predestinato alla vicepresidenza un personaggio che abbia una certa levatura politica, avendo cura di fare in modo che tutti gli altri siano ben al di sotto di questa levatura. Altrimenti c’è il rischio che si vada in Assemblea e venga eletto un personaggio diverso quello che era stato predeterminato. Dunque, poiché si deve fare in modo che quello che sarà eletto Vicepresidente sarà proprio colui che hanno scelto i gruppi parlamentari prima che il Consiglio si costituisca, si deve creare un gap notevole di spessore politico tra chi è destinato a fare il Vicepresidente e gli altri.
Per quanto riguarda i professori il margine è più elastico, si può eccedere in bravura per qualcuno; ma per quanto riguarda i politici, deve essere netta la distinzione, la differenza di peso politico. E tutti gli altri vengono preventivamente informati che non debbono candidarsi alla vicepresidenza.
Per quanto riguarda il sistema elettorale dei magistrati, l’obbiettivo dovrebbe essere quello di evitare che ciascuna corrente limiti il numero dei propri candidati al numerodei seggi che ritiene di poter ottenere, perché così si predetermina il risultato delle elezioni. Occorre costringere ad aumentare il numero di candidati, per evitare queste distorsioni del sistema istituzionale.
Quanto alla sezione disciplinare l’esigenza principale, in una prospettiva di riforma, è quella della specializzazione dei suoi componenti.
Si è detto: «chi giudica non amministra e chi amministra non giudica». A me sembra ragionevole.
Ai componenti della sezione disciplinare dovrebbero essere affidati solo compiti giurisdizionali e compiti di controllo. C'è una commissione di controllo sul bilancio, una commissione che si occupa del regolamento interno e che vigila sul regolamento. Affidiamo a questa commissione tutti i compiti di controllo e giurisdizionali e non quelli di amministrazione: non perché questa commistione sia di per sé ostativa a una corretta amministrazione della giustizia o a una corretta amministrazione dei magistrati; ma perché comporta una scarsa professionalità, non si riesce a ottenere una giurisprudenza coerente e uniforme.
Ci sono poi l’ufficio studi e i magistrati segretari, che sono uffici importantissimi, perché il consigliere appena eletto e per almeno un anno o due è in genere inesperto; mentre i magistrati segretari, cioè coloro che li assistono, sono già del luogo, hanno competenza specifica in materia di ordinamento giudiziario.
C'è una marea di circolari, delibere, risoluzioni del CSM, di cui è difficile impadronirsi senza il sostegno di chi è già del posto ed è esperto. Ma sono le correnti dell’Anm a scegliere chi mandare all'ufficio studi o alla segreteria, con una rigida lottizzazione.
Per gli incarichi direttivi c’è una competizione per i posti; e gli accordi sono occasionali, ora con una corrente ora con un'altra. Non c’è una spartizione lottizzatoria, tranne quando si debbono assegnare tanti posti insieme, come avviene ad esempio per la Cassazione. Per i magistrati segretari c’è invece una proporzione rigorosa tra il peso elettorale di ciascun gruppo e il numero di magistrati segretari e di componenti dell’ufficio studi.
Nel 1990 era stata approvata una legge che escludeva i magistrati dalla segreteria e dall’ufficio studi, prevedendo l’affidamento di questi ruoli a funzionari assunti per concorso. Con una delibera di legittimità almeno dubbia si è detto che questa legge è stata implicitamente abrogata.
Sarebbe comunque necessario che questi posti fossero sottratti alla lottizzazione, che esclude chi non ha una tessera, esclude chi non ha appartenenza. Ma non si è voluto nemmeno che i magistrati vengano scelti per concorso: si è preteso che siano scelti col bilancino delle correnti, perché ciascuna corrente deve avere un numero di magistrati segretari e di componenti dell’ufficio studi proporzionale al suo peso elettorale.
Il fondo della questione è tuttavia nell’involuzione dell’ANM.
Negli anni ‘60 e ‘70 la Magistratura ha rappresentato in questo Paese una forza di emancipazione, contribuendo, ad esempio, all’attuazione della Costituzione e alla diffusione di una sensibilità ecologica. Questa funzione propulsiva è stata conservata certo dai giudici; ma è ormai del tutto estranea all’impegno delle correnti dell’ANM. Le correnti si distinguono solo come apparati, come apparati che cercano di giustificare la propria esistenza. Non c’è più differenza progettuale. Tant’è che per quasi tutte le questioni di fondo, tutte le correnti finiscono per convergere su un’impostazione sindacale. In una situazione disastrosa, qual è quella del sistema giudiziario italiano, si è arrivati a proporre l’allungamento dei termini di deposito delle sentenze civili monocratiche.
La crisi della giustizia è certamente una crisi da eccesso di input: c’è un eccesso di domanda. E questo eccesso di input è responsabilità della politica, una politica abnormemente interventista. Sul codice di procedura penale siamo ad oltre centodieci leggi di modifica. Non c’è stabilità dei criteri di giudizio.
Tuttavia se non c’è un’assunzione di responsabilità da parte della magistratura, per favorire una efficiente organizzazione degli uffici e una ragionevole prevedibilità delle proprie decisioni; se i magistrati non si riappropriano del proprio ruolo progettuale, nelle scelte anche politiche relative all’organizzazione del proprio lavoro, risulterà inutile qualsiasi riforma.
Purtroppo il CSM, cui queste scelte organizzative sono in misura notevole affidate, manca di capacità progettuale. In consiglio c’è solo un sindacato che pensa prevalentemente agli interessi dei lavoratori, molto poco a quelli dell’istituzione.