Governance e prevenzione della corruzione: dal pubblico al privato. - novembre 2015

di Giovanni Maria Flick**

Sommario: 1. Dalla repressione alla prevenzione della corruzione. – 2. Un modello pubblico o privato di prevenzione? – 3. I rischi della sovrapposizione fra i due modelli. – 4. La “privatizzazione” della prevenzione. – 5. Le indicazioni della legge- delega per la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche (n. 124/2015). – 6. Il professionista e la prevenzione: nel rispetto del princìpio di legalità sostanziale…; – 7. (segue) … nel contributo professionale all’organizzazione della governance e alla compliance.

 

1. Dalla repressione alla prevenzione della corruzione. – In passato la corruzione, allora non ancora sistemica, era confinata in un contratto illecito previsto dal codice penale in varie forme, per la compravendita di un atto – il più delle volte illecito, talora invece dovuto – del pubblico funzionario da parte del privato. Il contrasto alla corruzione si esauriva nella sua repressione.

Il quadro si è profondamente modificato negli ultimi tempi. Si pensi ai cambiamenti drastici (per lo più in peggio) della pubblica amministrazione: le privatizzazioni per motivi apparenti di efficienza, in realtà per motivi sostanziali di elusione dei pochi controlli pubblici rimasti; il dilagare della prassi dell’emergenza; la proliferazione di centri decisionali e di poteri di veto. Si pensi a quelli altrettanto drastici (in meglio, per così dire) della corruzione: dalla mazzetta alle triangolazioni, alle consulenze e alle compensazioni; dalla compravendita dell’atto a quella della funzione. Si pensi ai cambiamenti del mercato – non più nazionale, ma globale – e dell’operatività delle grandi imprese, nonché al moltiplicarsi dei competitori e degli interlocutori pubblici a livello internazionale.

Quei cambiamenti e l’inefficienza della giustizia penale nella repressione hanno indotto a spostare il focus da quest’ultima alla prevenzione. Seguendo una serie di indicazioni ed esperienze sovranazionali e straniere, si è di fatto privatizzata la prevenzione delegandola alle imprese, potenziali beneficiarie della corruzione commessa dai loro dipendenti o vertici apicali. Si è utilizzato a tal fine il sistema del bastone (la punizione) e della carota (l’impunità) per le imprese che non adottino o al contrario pongano in essere un sistema adeguato di compliance, per impedire la attività corruttiva dei loro operatori.

È una prevenzione non solo privatizzata, se pur sempre sotto il controllo dello Stato. É altresì affidata a una responsabilità imprenditoriale di organizzazione: nella valutazione e gestione del rischio di corruzione; nel monitoraggio delle aree ed attività a rischio; nella formazione dei dipendenti; nell’impegno dei vertici di impresa; nell’elaborazione di best practices e di codici etici; nella trasparenza; nel whistleblowing (l’incoraggiamento alla segnalazione di illeciti da parte dei dipendenti, con strumenti di tutela contro le ritorsioni o addirittura premiali).

Questa prospettiva è stata avviata dalla introduzione (con il d. lgs. 231/2001) della responsabilità penale – formalmente “amministrativa” – per omesso apprestamento delle cautele organizzative idonee ad impedire la commissione di reati da parte dei dipendenti o amministratori. Essa è stata potenziata con la legge 190/2012, accentuandone le caratteristiche pubblicistiche per applicarla alla prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione; una premessa alla sua successiva applicazione sia all’area degli ecoreati e della sicurezza sul lavoro, sia – prima o dopo – a quella dell’evasione fiscale.

Nel frattempo la privatizzazione della prevenzione si sviluppava ulteriormente con la introduzione del delitto di corruzione privata; con il controllo pubblico attraverso la creazione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione e il conferimento ad essa di poteri sempre più incisivi; con l’introduzione di numerosi, onerosi e complessi obblighi di organizzazione (il piano triennale e il responsabile anticorruzione) e di trasparenza ed informazione.

Quegli obblighi si riferiscono all’amministrazione pubblica in tutte le sue molteplici realtà organizzative, fra loro diverse: grandi e piccole, centrali e locali, di stampo pubblicistico e di stampo privatistico. Un abito a taglia unica da adattare alle figure più disparate attraverso le acrobazie interpretative dell’autorità di vigilanza.

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2. Un modello pubblico o privato di prevenzione? – In questo contesto riemerge – con tutto lo strascico di difficoltà già sperimentate nel secolo scorso per un settore peculiare di impresa, quello del credito – il problema della distinzione fra pubblico e privato. La pietra d’inciampo è rappresentata dai c.d. enti di mano pubblica; dalle società controllate e/o partecipate dalla pubbliche amministrazioni centrali e locali; dalla tipologia inesauribile di forme diverse che la nostra fantasia è riuscita a creare (dai grandi protagonisti di impresa pubblica alla miriade di esperienze della finanza locale).

La sovrapposizione dall’etichetta pubblica a quella privata per le c.d. società di mano pubblica apre un duplice problema. In primo luogo, per esse si aggiunge ai numerosi interventi che si sono succeduti nell’ultimo quindicennio – in tema di governance delle società private e di controlli in sede societaria e di vigilanza del mercato – l’ulteriore controllo di stampo tipicamente pubblicistico previsto dalla legge 190/2012. Sicchè quelle società devono agire come private (al pari delle altre), ma devono essere controllate come pubbliche; con un costo non solo economico, in termini di burocratizzazione e di duplicazione quando non addirittura di triplicazione di interventi e di adempimenti fra loro non sempre coerenti e talvolta contraddittori.

In secondo luogo, si introduce fra le società quotate e operanti sul mercato una differenza rilevante negli obblighi di trasparenza e di informazione per quelle private tout court e per quelle di c.d. mano pubblica. Ne derivano evidenti conseguenze in tema di disparità di trattamento, di competitività, di confronto fra le prime e le seconde e con gli investitori esteri tanto attesi. Sono conseguenze ancor più paradossali, di fronte alla nuova prospettiva di contrasto alla corruzione mirata soprattutto a garantire la competitività e la par condicio di coloro che operano con la pubblica amministrazione, in concorrenza fra loro. La concorrenza è considerata oggi uno dei principali antidoti per combattere il diffondersi della corruzione.

Ne deriva altresì un problema di costituzionalità – o quanto meno di opportunità – per disparità di trattamento in un contesto di alterazione della par condicio concorrenziale per ragioni di ordine soggettivo (la presenza di azionariato pubblico; o lo svolgimento di attività con finalità pubbliche) che probabilmente non giustificano tale disparità. Né può escludersi che – come avvenne a suo tempo per il settore creditizio – la giurisprudenza tenda ad una parificazione verso l’alto in chiave pubblicistica anche per gli operatori privati, anziché verso il basso in chiave privatistica per gli operatori degli enti di mano pubblica.

Inoltre lascia perplessi la prospettiva – delineata nelle linee-guida – di distinguere ai fini della salvaguardia della par condicio non tanto i soggetti tenuti o meno alla trasparenza di stampo pubblicistico, quanto le attività organizzative e/o funzionali cui applicare o meno tale criterio: con il rischio di una frammentazione casistica, di incertezze, di contenzioso e – in ultima analisi – di poca chiarezza e certezza nella definizione e delimitazione di obblighi essenziali per l’operatività delle società stesse.

Queste perplessità trovano parziale conferma nelle osservazioni critiche che la stessa ANAC formula reiteratamente (nelle linee-guida da essa emanate nel marzo 2015), con riferimento al sistema normativo vigente: «…L’ambito soggettivo di applicazione delle norme è particolarmente vasto ed eterogeneo… il quadro normativo che emerge dalla legge n. 190 del 2012 e dai decreti di attuazione è particolarmente complesso, non coordinato, fonte di incertezze interpretative e non tiene conto delle esigenze di differenziazione in relazione ai soggetti, pubblici e privati a cui si applica». Da ciò il reiterato riferimento dell’Autorità alla necessità di una “interpretazione costituzionalmente orientata” e di linee-guida per adeguare il quadro normativo generale ed onnicomprensivo alla molteplicità di situazioni – eterogenee e fra loro diverse – da disciplinare.

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3. I rischi della sovrapposizione fra i due modelli. – Il ricorso alla via della prevenzione e della sua “privatizzazione” richiede un coinvolgimento pieno degli operatori economici privati, rectius di stretta sinergia ed interazione fra l’etero-integrazione di stampo pubblicistico e la self-regulation di stampo privatistico. Tuttavia, una condizione preliminare ed ineliminabile dell’efficacia/efficienza del sistema di prevenzione è rappresentata dalla semplificazione del sistema normativo di prevenzione, nonché della sua facile accessibilità e conoscibilità.

Il problema è reso ulteriormente complesso in termini generali dal fatto che la linea di fondo del sistema di prevenzione è rappresentata, per quanto riguarda gli enti economici e le società c.d. di mano pubblica, dall’innesto in blocco del modello pubblicistico sulla disciplina privatistica di controllo e compliance preesistente e vigente secondo il modello privatistico introdotto dal D. lgs. 231 del 2001. Tali enti e/o società vengono attratti nel perimetro della pubblica amministrazione alla stregua di una serie di parametri o inidonei e superati (il riferimento al rapporto di  impiego pubblico) o generici e di non agevole delimitazione interpretativa. Essi sono costituiti dal controllo di fatto ex art. 2359 c.c. in termini di influenza dominante o di maggioranza azionaria; e/o dagli indici di “attività di pubblico interesse” nonché di esercizio di funzioni amministrative, di produzione di beni e servizi a favore di amministrazioni pubbliche, di gestione di servizi pubblici.

Quanto alla sovrapposizione fra il sistema di controllo e prevenzione nascente del quadro normativo in esame ed i preesistenti sistemi di controllo derivanti dal modello organizzativo societario o dall’iniziativa organizzativa e dall’autonomia d’impresa, occorre poi tener presente che nell’ultimo decennio una serie di interventi normativi ha profondamente modificato i princìpi e le regole di governo dell’impresa (soprattutto per la grande impresa e le società quotate). Si tratta di interventi che hanno inciso in modo positivo sulle regole in tema di amministrazione: dal ruolo strategico del consiglio di amministrazione al contenuto dei doveri di vigilanza e alla responsabilità per l’organizzazione. Occorre invece intervenire ulteriormente sul coordinamento tra organi e funzioni, per superare e condurre a omogeneità la funzione di controllo, tuttora frammentata in una pluralità di segmenti e di organi.

In questo contesto, l’ulteriore accrescimento della pluralità dei soggetti e dei tipi del controllo, a carattere rispettivamente privatistico e pubblicistico, può indurre fenomeni di sovrapposizione fra le aree di controllo e di duplicazione delle attività, con potenziali rischi di deresponsabilizzazione dei soggetti coinvolti nonché con aggravio dei costi.

Si deve assicurare un equilibrio tra la necessità di prevenzione e controllo e il rischio di imporre alle imprese oneri burocratici eccessivi o/e inefficienti; l’eccesso di regole può spingere ad una loro applicazione formalistica ed a comportamenti elusivi (cosmetic compliance). Da ciò la opportunità (se non la necessità) di un’attenta verifica sulle conseguenze suscettibili di derivare dalla sovrapposizione al sistema privatistico – già di per se problematico e bisognoso di ripensamenti e di aggiustamenti – di ulteriori oneri di stampo lato sensu pubblicistico, suscettibili di indurre ulteriori aspetti di duplicazione e di costo.

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4. La “privatizzazione” della prevenzione. – In sintesi, nell’attuale contesto sistemico di corruzione la prevenzione è necessaria quanto la repressione. Essa dovrebbe mirare non tanto alla scoperta di reati già commessi od alla ricerca di prove di essi, quanto e soprattutto alla realizzazione di un contesto organizzativo e di trasparenza che cerchi di impedire e/o ostacolare la commissione di reati, rendendola più difficile e più rischiosa. A tal fine, la prevenzione da parte dello Stato dovrebbe mirare ad introdurre un conflitto di interessi tra i protagonisti del patto occulto corruttivo; dovrebbe potenziare l’utilizzo dei c.d. reati-sentinella; dovrebbe perseguire la semplificazione normativa e l’efficienza organizzativa.

In coerenza alle indicazioni e tendenze sovranazionali, la prevenzione dovrebbe essere demandata in prima battuta agli operatori di settore, sotto il controllo e con l’individuazione di criteri, soglie e obiettivi da parte dello Stato. Il coinvolgimento degli operatori nella prevenzione è giustificato: sia dalla intervenuta penalizzazione della c.d. corruzione privata e dalla sua parificazione a quella pubblica, che richiede la prevenzione di entrambe; sia dalla lesione alla par condicio concorrenziale, che costituisce oggi un nucleo essenziale dell’offesa arrecata dalla corruzione.

La prevenzione “privata” della corruzione dovrebbe fondarsi in primo luogo sull’articolazione degli organi e funzioni di controllo interni societari, previsti dal vigente quadro normativo generale e di settore. Essa dovrebbe fondarsi in secondo luogo sulla adozione, da parte degli operatori e nell’ambito della loro autonomia organizzativa, di ulteriori cautele e buon pratiche nel contesto della self-regulation: con conseguenze di ordine premiale o, in caso contrario, di ordine sanzionatorio. Lo Stato dovrebbe e potrebbe intervenire per verificare l’adeguatezza, l’efficacia e l’efficienza, il rispetto del quadro normativo societario e della sua integrazione in termini di self- regulation; e – occorrendo – per imporne l’adeguamento.

Per contro, l’attrazione delle c.d. società di mano pubblica nella sfera della pubblica amministrazione – sulla base di indici formali e/o contenutistici vaghi e generici – al fine di imporre loro modelli di controllo e di trasparenza pubblicistici ed uniformi, a carattere generale, può creare molteplici inconvenienti (incertezze interpretative e contenzioso; duplicazione di interventi; aumento di costi; rischi di sovrapposizione, di burocratizzazione e di inefficienza etc.; disparità di trattamento tra operatori…). L’opzione pubblicistica è già stata sperimentata negli anni ’70 del secolo scorso con esiti negativi per il controllo della patologia nell’attività di impresa bancaria, attraverso l’applicazione ai suoi operatori della qualità di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio e del c.d. statuto penale della pubblica amministrazione.

Sembra perciò incoerente e problematico applicare all’attività di prevenzione di una prospettiva (quella dell’inquadramento pubblicistico e della dilatazione del concetto di pubblica amministrazione) già percorsa ed abbandonata a suo tempo per l’attività di repressione. Una simile prospettiva potrebbe nuovamente condurre a riconoscere in via interpretativa la qualità di pubblico ufficiale e/o di incaricato di pubblico servizio (artt. 357 e 358 c.p.) all’operatore delle società di c.d. mano pubblica; con conseguenze negative agevolmente intuibili sotto il profilo della par condicio, dell’operatività nel mercato globale, dell’incentivo all’investimento estero.

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5. Le indicazioni della legge-delega per la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche (n. 124/2015). – Concludendo, che fare ai fini di una prevenzione efficace, nella possibile alternativa tra un intervento di stampo pubblicistico; un intervento di carattere settoriale nell’ambito societario; un intervento che sia espressione dell’autonomia organizzativa: coltivarli tutti, o qualcuno, o (in pratica) nessuno? La prospettiva più logica sembra essere quella di puntare a una disciplina semplificata e efficiente; unitaria ed uguale per tutti (privati tout court e privati di mano pubblica); calibrata sulle peculiarità privatistiche del loro modo di agire e della loro autonomia organizzativa e operativa; con un controllo rigoroso dello Stato sulla applicazione di quella disciplina.

È questa l’indicazione proposta pressoché testualmente dalla legge delega n. 124 del 2015 per la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.

Nel comma 1 lett. a dell’art. 18 (Riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, nel capo IV, dedicato alle Deleghe per la semplificazione normativa) si propone il criterio direttivo della “distinzione tra tipi di società in relazione alle attività svolte e agli interessi pubblici di riferimento, nonché alla quotazione in borsa, e individuazione della relativa disciplina, anche in base al principio di proporzionalità delle deroghe rispetto alla disciplina privatistica, ivi compresa quella in materia di organizzazione e crisi d’impresa”. Inoltre all’art. 18 comma 1 lett. h si propone il criterio direttivo della “eliminazione di sovrapposizioni tra regole e istituti pubblicistici e privatistici ispirati alle medesime esigenze di disciplina e controllo”.

Preliminarmente, al comma 1 lett. a e c dell’art. 7 (Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, nel capo I, dedicato alle Semplificazioni amministrative) si propongono – per l’adozione di “disposizioni integrative e correttive” dei d. lgs. n. 33 e 39 del 2013 – il criterio direttivo della “precisazione degli obblighi in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza delle amministrazioni pubbliche”, nonché il criterio direttivo della “riduzione e concentrazione degli oneri gravanti in capo alle amministrazioni pubbliche”, in aggiunta ai criteri direttivi di cui all’art. 1, commi 35 e 50 della legge n. 190 del 2012.

Quelle proposte della legge delega sono indicazioni (o promesse ed impegni?) essenziali per contribuire a passare effettivamente dalla cultura e dall’ipocrisia della legalità formale allo sviluppo di una cultura della legalità sostanziale e quindi della reputazione e della vergogna (Volkswagen docet): in mancanza di quest’ultima, le leggi rischiano (come diceva Giolitti) di essere interpretate per gli amici e applicate per gli altri; rischiano di rendere difficili le cose facili attraverso quelle inutili, ed ancor più difficili quelle (come il contrasto alla corruzione) che già sono di per sé difficili.

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6. Il professionista e la prevenzione: nel rispetto del princìpio di legalità sostanziale…; – Le prospettive attuali di contrasto alla corruzione – che privilegiano la prevenzione e la sua privatizzazione rispetto alla repressione, affidando le prime soprattutto alla responsabilità e all’organizzazione di impresa – suggeriscono infine una riflessione specifica sul ruolo e sulla responsabilità dei liberi professionisti (segnatamente gli avvocati, i commercialisti, i consulenti di impresa, i consulenti del lavoro ed i notai). È una riflessione che in questa sede può essere soltanto accennata; ma merita un approfondimento perché potrebbe segnare in qualche modo il futuro della professione e della consulenza, nel contesto della svolta che il contrasto alla corruzione propone per il diritto penale più in generale.

Il primo aspetto di questa riflessione – di interesse particolare per la consulenza giuridica – è rappresentato dalle conseguenze della divergenza che si è sviluppata tra il princìpio di legalità formale, tradizionale e consolidato nell’esperienza italiana alla luce dell’art. 25 2° comma Cost.; ed il princìpio di legalità sostanziale, formatosi nell’esperienza sovranazionale europea alla luce della sua formulazione nella Convenzione EDU e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché alla luce della sua elaborazione nella giurisprudenza delle due corti europee (EDU e di Giustizia). Il primo significato di quel princìpio si radica soprattutto sulla fonte della norma (la c.d. riserva di legge); il secondo significato si radica soprattutto sul contenuto della norma quale risulta dalla elaborazione giurisprudenziale. Insomma, la norma non per come nasce dalla legge, ma per come vive nella giurisprudenza ed è come tale accessibile nonché prevedibile nell’esito della sua applicazione.

Con una decisione del 4 marzo 2014 (Grande Stevens ed altri c. Italia) – divenuta oramai famosa – la Corte di Strasburgo, senza innovare la sua giurisprudenza, ha confermato la sua visione sostanzialistica della norma e della “materia penale”, indipendentemente dalla qualificazione formale della prima da parte della legislazione nazionale. Valgono in tal senso i c.d. Engel criteria, consolidati e richiamati dalla Corte per l’applicazione delle garanzie processuali e sostanziali alla “materia penale” in ragione della natura delle violazioni e della afflittività delle sanzioni applicabili, anche in presenza di una qualificazione formalmente amministrativa di queste ultime, da parte del legislatore nazionale.

La maggior attenzione al contenuto della norma, anziché alla sua fonte, è particolarmente presente nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla corruzione. Ad esempio, solo tardivamente con la legge 190 del 2012 – il legislatore italiano ha ratificato e fatto propria un’evoluzione giurisprudenziale che tendeva a sostituire la compravendita del singolo atto con quella della funzione. Ancora e soprattutto, la normativa più recente in tema di misure cautelari reali nei confronti dell’impresa (cfr. da ultimo il D.L. n. 90 del 2014) ha introdotto una pluralità di strumenti di incerta definizione, di possibile sovrapposizione reciproca, di ambiguità nei presupposti per la loro applicazione, di complessità e difficoltà nell’attuazione. Sono misure ben lontane dalla tipicità che qualifica la previsione e la disciplina delle misure cautelari personali in tema di libertà delle persone fisiche; e testimoniano ancor di più il progressivo allontanarsi della prevenzione dal princìpio di legalità formale e dal rispetto della riserva di legge.

Da ciò è agevole desumere una nuova prospettiva della logica difensiva rispetto a quella già tradizionale. Non si tratta più e tanto dello sforzo per dimostrare che una certa situazione di fatto non rientra nella previsione normativa formale proposta dal legislatore (ad esempio, il passaggio da una accettabile interpretazione estensiva ad una inammissibile interpretazione analogica); quanto dello sforzo per dimostrare l’estraneità e la non riconducibilità di tale situazione al contenuto della norma vivente. Si tratta cioè di attribuire maggior attenzione alla sostanza, più che al virtuosismo interpretativo e concettuale.

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7. (segue) …nel contributo professionale all’organizzazione della governance e alla compliance. – Un secondo aspetto della riflessione è rappresentato dalla maggior attenzione che il professionista/consulente dovrà dedicare alla fase di prevenzione; quindi alla elaborazione delle regole di compliance e della loro applicazione, nonché alla formazione a tal fine nell’impresa. Insomma, una prospettiva ed un’attività soprattutto ante delictum e per evitare quest’ultimo, più che post delictum per difendere le persone e le imprese dell’accusa di aver concorso in qualche modo a commetterlo o a non impedirlo.

La filosofia della prevenzione diviene quella di chiedere all’impresa di formulare nella propria autonomia e poi di applicare delle regole – di compliance, di governance, di organizzazione che siano adatte alla sua realtà ed in grado di impedire effettivamente la corruzione al suo interno. È questa la condizione per evitare che dall’alto (dal giudice o dal legislatore) vengano imposte all’impresa delle regole certamente meno adatte delle prime alla sua realtà ed operatività. A tal fine occorrerà il contributo di esperti che aiutino l’impresa stessa ad evitare da un lato una cosmetic compliance inutile; ad evitare dall’altro lato una regolamentazione o insufficiente o comunque inadatta a conseguire il risultato voluto.

Tale prospettiva appare essenziale sotto più aspetti. In primo luogo, vi è quello della prevedibile estensione di questo clichet di prevenzione anche ad altri settori, oltre a quello del contrasto alla corruzione. Penso all’area degli ecoreati e a quella della sicurezza sul lavoro, che coinvolgono egualmente e forse più ancora l’organizzazione di impresa e la compliance. Penso all’area della evasione fiscale, che prima o dopo verrà attratta anch’essa in quest’orbita, alla stregua dei segnali che già si colgono ora attraverso la confisca all’impresa del c.d. risparmio fiscale derivante dall’evasione, qualificato dalla giurisprudenza come profitto del reato.

In secondo luogo vi è l’aspetto della collaborazione – talvolta inevitabile, spesso opportuna e comunque destinata a svilupparsi ulteriormente – con l’autorità di polizia e giudiziaria. Si affaccia da parte di taluno addirittura il timore che la “privatizzazione della prevenzione” possa divenire in qualche modo una “privatizzazione delle indagini e del processo penale”; con tutte le implicazioni, complicazioni e responsabilità che possono derivarne per l’impresa medesima su vari fronti, a cominciare da quello del rispetto dei diritti e della privacy dei dipendenti.

È una prospettiva che può sembrare assai lontana e paradossale. Può lasciar intravedere sviluppi e timori di funzionalizzazione dell’impresa evocati da certe tendenze, che trovano qualche riscontro in iniziative legislative rivolte all’introduzione e alla generalizzazione del c.d. whistleblowing: la segnalazione – per ora volontaria e delimitata ai pubblici impiegati; ma un domani forse e secondo taluno doverosa ed estesa ai privati – delle irregolarità e delle ipotesi di maladministration di cui si venga a conoscenza sul posto di lavoro.

“L’iniziativa economica privata è libera”, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41 Cost.). Ciò vuol dire che, a differenza del modo già tradizionale di perseguire il profitto a qualsiasi costo (compreso il “costo” dell’illegalità, della corruzione, del degrado ambientale, dell’assenza di sicurezza per chi lavora: tutti “costi” che gravano sulla collettività e su altri, più che sull’imprenditore), occorre entrare nella logica che il rischio-corruzione, il rischio-illegalità e il rischio-reputazione sono una componente del rischio d’impresa al pari del rischio industriale, finanziario, di mercato etc. La consulenza e la collaborazione del professionista per evitare quei rischi diventa perciò una componente essenziale dell’organizzazione di impresa: prima, però, e non dopo che i guasti si siano verificati.

3 novembre 2015 - * Intervento per il seminario su “Legalità e prevenzione della corruzione - Il ruolo e la responsabilità dei liberi professionisti”. Prato, Auditorium Camera di Commercio, 6 novembre 2015. - ** Presidente emerito della Corte Costituzionale.