Macchè prescrizione, aboliamo l'appello! - di Francesco Petrelli - novembre 2014

MACCHE’ PRESCRIZIONE, ABOLIAMO l’APPELLO!

di Francesco Petrelli

Qualcuno dovrebbe farsi carico di fornire alcune indispensabili prescrizioni a tutti coloro che intendono metter mano alla riforma della giustizia. Occorrerebbe in primo luogo ricordare che una pratica efficace del problem solving presuppone una approfondita analisi ed una attenta valutazione dei motivi e delle cause che hanno prodotto le criticità ed i problemi. Affrontare il problema delle riforme del processo penale impugnando strumenti ideologici o ancor peggio, trarre “occasione” dall’insorgere di questo o quel problema per operare controriforme illiberali, autoritarie ed inquisitorie, significa inoculare nell’intero sistema pericolosi elementi distorsivi, significa non risolvere le criticità ma spostarle da un luogo all’altro del processo.
Prima, dunque, di prospettare come indispensabile una riforma della prescrizione e prima di richiedere un intervento normativo immediato che consenta la interruzione dei termini di prescrizione dopo la sentenza di primo grado, occorrerebbe rispondere ad una serie di domande. Occorrerebbe in particolare chiedersi se la riforma introdotta nel 2005 dalla cd. legge Cirielli, con i successivi correttivi operati dalla Corte costituzionale, abbia in questo decennio fornito un qualche contributo positivo nella risoluzione del problema, ed occorrerebbe poi chiedersi se il numero di prescrizioni che tuttora affligge il nostro sistema processuale sia da ascrivere a quella legge, ad un eccesso di garanzie nella fase dibattimentale, ovvero ad un uso distorto delle stesse da parte delle difese, o anche ad altre differenti ragioni.
Andando con ordine occorre subito precisare che a seguito della introduzione delle legge Cirielli il numero delle prescrizioni, che nel 2005 ammontava ad oltre 200.000, si è sostanzialmente dimezzato.
Ed occorre soprattutto rilevare come non sia affatto vero che sia il dibattimento il luogo ove matura il maggior numero delle prescrizione, perché come dimostrano i dati resi noti di recente dal Ministero della Giustizia, la maggior parte delle prescrizioni matura già nella fase delle indagini preliminari.
Per parlare dati alla mano, risulta che nel 2012 le prescrizioni sono state complessivamente 113.057, ma di queste ben oltre 70.000 sono intervenute nel corso delle indagini preliminari: 67.252 sono state oggetto di decreto di archiviazione, 4.725 sono state dichiarate con sentenza da parte dell’ufficio Gip/Gup. Ciò significa che immaginare come rimedio una interruzione dei termini dopo la sentenza di primo grado sarebbe metaforicamente come chiudere la stalla dopo che i buoi sono fuggiti, dopo cioè che la maggior parte delle prescrizioni sono già maturate.
Preso atto di questo dato, ed immaginando una sua eventuale anelasticità, potrebbe dunque intervenirsi allungando (ancor di più) la durata dei termini relativi alle indagini preliminari, che è oggi di sei anni. Ma sembrerebbe francamente uno sproposito immaginare una indagine ancor più lunga, in evidente contrasto con tutte le regole del processo e del buon senso.
Preso atto poi che solo le rimanenti 43.000 (sulle 113.057 prescrizioni complessive) sono state dichiarate nel corso delle successive fasi del processo, occorre chiedersi se tale dato in sé sia davvero patologico e se in particolare sia da attribuirsi ad un eccesso di garanzie ovvero ad evidenti vizi del sistema e ad inefficienze interna del sistema, non riconducibili necessariamente alla denunciata mancanza di mezzi e di risorse. Dal 2005 al 2008 l’Unione delle Camere Penali ha sviluppato, con il supporto di Eurispes, una serie di indagini su campo estese all’intero territorio nazionale, dalle quali è risultato come una bassissima percentuale di rinvii del dibattimento fosse determinata da impedimenti e da istanze difensive. D’altronde, la sospensione dei termini prescrizionali prevista dalla legge Cirielli in caso di richiesta di rinvio avanzata dalla difesa, costituisce un evidente rimedio a fronte di eventuali distorsioni ed impedisce di ritenere che siano addebitabili alle difese le prescrizioni maturate nel corso della fase dibattimentale.
Ma al fine di procedere con la necessaria ragionevolezza occorrerà anche tenere conto del fatto che un adeguato e perdurante termine prescrizionale, funge nel nostro sistema – come chiunque si occupi di cose di giustizia ben sa - da stimolo assai efficace alla celebrazione dei processi i quali, se sottratti a tale minaccia, resterebbero abbandonati negli armadi per dei lustri. Chi potrebbe auspicare un simile sistema che, in violazione dello stesso principio di ragionevole durata, e dispiacendo tanto alle vittime del reato quanto all’imputato, rinviasse tutti gli appelli in attesa di tempi migliori? L’interruzione dei termini avrebbe infatti, specie nei tribunali di maggiori dimensioni, e cioè quelli a maggior rischio di prescrizione, come risultato quello di creare un immenso limbo di processi all’interno del quale verrebbe a naufragare miseramente ogni ragionevole istanza di giustizia. Che senso ha, difatti, essere giudicati dopo troppi anni dal fatto, essere condannati a scontare pene inflitte per reati commessi molti anni prima, o anche essere riconosciuti come destinatari di un risarcimento con simili irragionevoli ritardi?
E non si dimentichi ancora come una quota superiore al 40 % delle decisioni di primo grado viene riformata in appello, per cui una interruzione dei termini all’esito del primo grado determinerebbe come effetto un notevole spostamento nel tempo di tali riforme, con la conseguenza di altrettante pendenze ingiustamente ed indeterminatamente dilatate nel tempo, tali da configurare un notevole danno in termini di sofferenza, di disagio, di perdita di occasioni di studio e di lavoro a carico dell’imputato che appare certamente non compatibile con un sistema giudiziario moderno ed efficace e con il principio di ragionevole durata.
E tuttavia, ad alcuni, simili scenari sembrano suggerire ben altre soluzioni. Più che il razionale scrutinio delle cause giova ai fini della soluzione dei problemi del processo un approccio viscerale che segua la sempre incipiente onda emotiva del quotidiano, lo smarrimento di un opinione pubblica disinformata dinanzi a casi controversi. E allora perché perdere tempo in simili alchimie da legulei quando la soluzione, rapida ed efficace, è sotto gli occhi di tutti? Che si elimini in radice la pietra dello scandalo, questo appello che allunga i processi, pericoloso e ingombrante. Dopo Roberti e Gratteri, ora anche il Procuratore di Palermo, cavalcando il pubblico disagio, sembra implicitamente invocare soluzioni assai radicali fondate su riflessioni altrettanto originali: “mi chiedo se sia giusto che la sentenza di appello prevalga su quella di primo grado”, visto che nella maggior parte dei casi il giudizio di appello si basa “soltanto sulle carte” incapaci di “ricostruire il clima che aveva colto invece il giudice di primo grado”. “Siamo sicuri – si chiede il Procuratore - che, benché il sistema stabilisca questo, sia più giusta la sentenza di appello? Anche questo è un ulteriore macigno sui tempi del processo”. La questione andrebbe approfondita altrimenti, ma ci pare necessario segnalare con una qualche urgenza almeno tre punti critici del ragionamento. Siamo davvero tutti sicuri che il giudizio debba “cogliere il clima” piuttosto che soppesare prove e responsabilità individuali? Non si rischia di far così processi “a furor di popolo”, piuttosto che “nel nome del popolo”? Il che non è proprio la stessa cosa. E poi, come mai simili riflessioni prendono forma di fronte a casi di assoluzione e non di fronte ad altrettanto clamorosi ribaltamenti in appello di assoluzioni in condanne sulla base delle medesime carte? E infine, siamo sicuri che questa voglia di smantellamento del processo sia un segno di modernità, un modo saggio di costruirci il futuro e non il sintomo evidente della perdita di capacità da parte di una intera classe intellettuale del paese di immaginare, di leggere e di gestire la complessità del presente? La complessità della giustizia era un tempo un dato sedimentato e condiviso che non smarriva l’animo dei pensanti e faceva cogliere il valore complessivo e positivo di quella macchina processuale che a prima vista, solo ad uno sguardo ingenuo, può apparire irragionevole. Scrive in proposito Charles-Louis de Montesquieu nel suo “spirito delle leggi”: “Se esaminate le formalità della Giustizia in relazione alla fatica che fa un cittadino per farsi restituire quello che è suo o per ottenere soddisfazione di un’offesa, ne troverete senza dubbio troppe. Se le considerate nel rapporto che hanno con la libertà e la sicurezza dei cittadini, ne troverete spesso troppo poche; e vedrete che le fatiche, le spese, le lungaggini, perfino i rischi della Giustizia, sono il prezzo che ogni cittadino paga per la propria libertà”.