14/06/2019
Il cielo europeo dei diritti umani si colora di 'Viola'!

La sentenza sull'ergastolo ostativo della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nell'affaire “Viola c. Italia”, appare destinata a rivoluzionare la politica penitenziaria nel nostro Paese.
Pubblichiamo il documento della Giunta e dell'Osservatorio Carcere
 

IL CIELO EUROPEO DEI DIRITTI UMANI SI COLORA DI VIOLA!

L'ERGASTOLO OSTATIVO CONTRASTA CON L'ART. 3 DELLA CEDU
ADESSO L'ITALIA NE PRENDA ATTO, NEL RISPETTO DELL'ART. 27 DELLA COSTITUZIONE.

 

La sentenza sull'ergastolo ostativo della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nell'affaire “Viola c. Italia”, appare destinata a rivoluzionare la politica penitenziaria nel nostro Paese.

E' la prima volta che l'istituto, tutto italiano, dell'ergastolo ostativo, noto ai più come “fine pena mai”, viene posto all'attenzione della Corte di Strasburgo e la risposta, chiare e netta, è che la pena perpetua non riducibile (ergastolo ostativo) rappresenta una palese violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.

La Corte ribadisce innanzitutto che “la dignità umana” costituisce il fondamento su cui si è costruito, nel secondo dopoguerra, il complesso sistema dei diritti umani in ambito europeo e che, pertanto, essa non sia per nulla negoziabile, risultando perciò incompatibile con i principi convenzionali “ privare una persona della sua libertà senza lavorare, allo stesso tempo, al reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare, un giorno, la sua libertà”.

La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nell'approcciarsi al caso denunciato dall'ergastolano Marcello Viola, affronta il tema della compatibilità del “fine pena mai” innanzitutto con l'art. 3 CEDU, con particolare riguardo alla “collaborazione”, unica chance di libertà secondo il sistema vigente, per i “condannati a vita” per reati  di particolare gravità quali quelli di cui all'art. 4 bis dell'Ordinamento Penitenziario.

La CEDU ritiene che “l'assenza della collaborazione non può sempre essere collegata a una scelta libera e volontaria né giustificata dalla persistenza dell'adesione ai valori criminali e dal mantenimento di legami con l'organizzazione mafiosa”, dubitando “sull'opportunità di stabilire un'equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale della persona condannata”, anche perché non è sempre detto che la collaborazione sia il segno di “un vero cambiamento” o prova esclusiva di “effettiva dissociazione dall'ambiente criminale”.

Ed ancora, occorre comunque tenere in considerazione “altri indici che consentono di valutare i progressi compiuti dal detenuto” anche come forma di dissociazione dal crimine.

La Corte ricorda che il sistema penitenziario italiano, con le sue opportunità progressive di contatto con la società - lavoro all'esterno, permessi premio, semi-libertà, liberazione condizionale – si pone il fine “di favorire il processo di reinserimento del detenuto”.

Costellare il sistema penitenziario di automatismi preclusivi di un trattamento di risocializzazione costituisce un grave vulnus per il detenuto.

“La personalità di una persona condannata non rimane fissa nel momento in cui il reato è stato commesso. Può evolversi durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione che consente all'individuo di rivedere criticamente il suo percorso criminale e di ricostruire la sua personalità. Per questo, il condannato deve sapere cosa deve fare affinché la sua liberazione possa essere presa in considerazione”.

Inoltre, la Corte di Strasburgo segnala come “l'equivalenza tra l'assenza di collaborazione e la presunzione assoluta di pericolosità sociale” cristallizza “la pericolosità dell'interessato al momento della commissione del reato invece di prendere in considerazione il reinserimento e ogni progresso fatto dopo la condanna”, sottraendo al giudice il diritto/dovere “di verificare se il detenuto si è evoluto ed ha progredito sulla via del cambiamento” e se “il mantenimento della detenzione” abbia ancora un senso.

Ed infine, nessuna lotta al crimine, nemmeno quella al flagello mafioso, può rappresentare una “deroga alle disposizioni dell'articolo 3 della convenzione che vieta in termini assoluti le pene inumane e degradanti.”

In conclusione, nessun automatismo ostativo, ma solo il rispetto della funzione di risocializzazione della pena che ha anche l'obiettivo di “prevenire la recidiva e proteggere la società”, un tentativo che anche gli Stati Generali dell'Esecuzione Penale, a cui parteciparono i componenti dell'Osservatorio Carcere UCPI, aveva posto in essere e che la riforma dell'attuale maggioranza ha del tutto vanificato.

Sin qui le prime battute della sentenza “Viola c. Italia” che ha demolito il sistema del “diritto penale del nemico” e la sua estrinsecazione nel trattamento penitenziario dei detenuti con l'art. 4 bis, 58 ter e 41 bis dell'Ordinamento Penitenziario e che ricorda come in Italia esista una Costituzione che esprime principi, valori e diritti irrinunciabili come quello consacrato nell'art. 27 secondo cui “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

L’U.C.P.I. adotterà ogni più opportuna ed efficace iniziativa politica per far sì  che il Parlamento italiano prenda atto di questa fondamentale decisione della Corte Europea ed adegui, di conseguenza, tutto il sistema dell'esecuzione penale, riportandolo nell'alveo della legalità costituzionale.

Roma, 14 giugno 2019

La Giunta

L'Osservatorio Carcere

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