29/04/2017
I limiti sull'appello e quel rischio concreto di depotenziarlo

Riportiamo un articolo del Presidente Migliucci e del Segretario Petrelli, pubblicato su Guida al Diritto, sulla valutazione di “inammissibilità” dell'appello, che, come è stata delineata dalle sezioni Unite il 22 febbraio 2017 con la sentenza n. 8825, pone diversi problemi soprattutto sul fronte dell’ampliamento dei poteri discrezionali del giudice. Fissare i limiti, entro i quali il giudice dell’impugnazione stabilisce quali motivi sono effettivamente «basati su argomenti strettamente collegati agli accertamenti della sentenza di primo grado», potrebbe depotenziare l’appello con pericolose prassi degenerative.

Non vi è dubbio che la valutazione di “inammissibilità” dell’appello, così come delineata dalle Sez. Un. 22.2.2017, pone non pochi problemi con riferimento all’obbiettivo ampliamento dei poteri discrezionali del giudice nell’esercizio del suo sindacato. Il timore che con tale decisione si possa “dare sfogo all’arbitrio interpretativo”, con ciò riducendo di fatto gli spazi delle impugnazioni di merito, sembra essere una prospettiva niente affatto fantasiosa.

La prima ragione di tale preoccupazione è che resta pericolosamente vaga ed indeterminata la risposta al quesito con il quale ci si rivolgeva alle Sez. Un.: “a quali condizioni e limiti” il “difetto di specificità” dei motivi di appello comporti l’inammissibilità dell’impugnazione ai sensi dell’art. 591 lett. c) c.p.p.

L’indirizzo più garantista (esemplificato dalle sentenze citate: Cass. sez. III, n. 23317/2016; Cass. sez. V, n. 8645/2016; Cass. sez. III, 5907/2014; sez. II, n. 6609/2013; Cass. sez. II, n. 36406/2012) aveva sostenuto che “pur essendo le norme in materia di impugnazione ispirate ad un “principio di articolato formalismo”, volto a “delimitare nei suoi esatti confini il campo di indagine del giudice del gravame”, lo stesso non deve essere inutilmente esasperato ogni qual volta sia possibile la sicura individuazione dei vari elementi dell’atto di impugnazione, altrimenti mortificandosi il principio del favor impugnationis” e la sua conseguente “idoneità a dare impulso al successivo grado del giudizio”.

Afferma Renato Bricchetti che “l’assunto del minor rigore nella valutazione” o della “valutazione meno stringente” non è condivisibile e, soprattutto, non è coniugabile con l’affermazione che la diversità dell’operare del medesimo requisito attiene alle peculiarità strutturali di appello e ricorso per cassazione”, precisando peraltro, in maniera piuttosto apodittica, che “il requisito della specificità del motivo deve essere sempre valutato con il medesimo rigore, costituendo requisito indefettibile sia dell’appello che del ricorso per cassazione, pena l’inammissibilità del motivo stesso”. 

La natura delle due impugnazioni, diverse per funzione, finalità e limiti strutturali, imporrebbe, al contrario, quasi per ragioni ontologiche, una differente modulazione degli atti di impugnazione che introducono due diversi giudizi, consentendo spazi diversi di ampiezza interpretativa del concetto stesso di specificità.

Tale criterio, elaborato con riferimento alle impugnazioni di legittimità, opera nel senso che meno specifica è la motivazione della decisione appellata, meno specificità sarebbe richiesta ai motivi di impugnazione e viceversa, quanto più specifica è la motivazione della decisione impugnata, tanto più specifici dovranno essere i motivi posti a sostegno della impugnazione.

La “specularità, fra decisione ed impugnazione non risulta affatto realizzata nel sistema in quanto dalla mancata osservanza della “specificità” richiesta al giudice estensore della sentenza, ai sensi dell’art. 546 comma 1, lett. e) c.p.p., non discende alcuna sanzione (potendo il giudice dell’appello “integrare” ogni manchevolezza delle motivazioni carenti o incomplete), mentre dalla a-specificità dell’atto di impugnazione discende la severa sanzione dell’inammissibilità ex art. 591 c.p.p.  La sentenza è nulla solo se la motivazione è del tutto mancante, mentre l’impugnazione è inammissibile se i motivi, pur presenti, sono ritenuti “aspecifici”.

L’elasticità “funzionale” e “relativizzante” della “specificità” amplia inevitabilmente i limiti di discrezionalità del giudice dell’appello e (con i soli limiti di cui all’art. 627 comma 4 c.p.p.), dello stesso giudice di legittimità, il quale dovrà e potrà spaziare all’interno del giudizio di fatto, in quanto l’accertamento in ordine alla sussistenza di una idonea “argomentazione dei rilievi” estende a dismisura i confini del giudizio di ammissibilità, lasciando che lo stesso sconfini nel merito del giudizio.

Nei casi in cui le ragioni di fatto poste a fondamento della sentenza impugnata siano sommarie ed implicite (come ad es. nel caso oggetto della decisione delle sez. un.), si finisce per impedire all’impugnante una più diffusa “critica dialettica” rispetto alle “argomentazioni” del primo giudice, il che dovrebbe rendere “specularmente” inesigibile una esplicita elaborazione dei “rilievi”.

Nascono, tuttavia, sviluppi paradossali: se “visti e valutati i parametri di cui all’art. 133 c.p.” è motivazione sufficiente a soddisfare l’obbligo costituzionale di cui all’art. 111 Cost., non si vede perché la richiesta di rideterminazione della pena in termini più favorevoli all’imputato, operata nei motivi di appello sulla stessa base, debba essere ritenuta “generica”. 

Sottratto alla mediazione interpretativa del “favor impugnationis” ed abbandonato al larghissimo spettro del suddetto criterio di “stretto collegamento”, il controllo della specificità dilaga in un’indistinta terra di nessuno, in quanto le questioni relative alla più o meno stretta (e convincente) correlazione fra ragioni critiche e ragioni della decisone, si andranno inevitabilmente a sovrapporre ed a confondere con la questione di merito circa la fondatezza dell’appello, incrementando la tentazione di sostituire la finalità di controllo formale delle impugnazioni, con una diversa finalità deflattiva, cosa che in passato si è già verificata.

Risulta, infine, fuorviante il richiamo operato nella decisione in commento ad altra sentenza delle S.U. nella quale si afferma che “esistono all’interno dell’ordinamento fondamentali esigenze di funzionalità e di efficienza del processo, che devono garantire (…) l’effettivo esercizio della giurisdizione e che non possono soccombere di fronte ad un uso non corretto, spesso strumentale e pretestuoso, dell’impugnazione”.

Non si può accettare che vengano bilanciati due interessi tanto difformi, quello di garantire il sistema processuale a fronte di eventuali distorsioni patologiche, con quello dell’esatta delimitazione della specificità dei motivi posti a fondamento dell’atto di impugnazione e della susseguente corretta determinazione dei suoi effetti devolutivi, in quanto evocando tale sfondo patologico si finisce con il conferire alla meno garantista interpretazione della norma una funzione di rimedio alla presunta “pretestuosità” e non alla “a-specificità” dei motivi, ed una altrettanto pericolosa finalità deflattiva che costituisce uno “scopo” estraneo alla ratio della norma oggetto della indagine ermeneutica delle S.U.

Non solo questa presunta finalità “deflattiva”, o peggio “punitiva”, non può essere desunta da alcun tratto della norma in esame, ma se anche si volesse calare l’art. 591 c.p.p. all’interno del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, una analisi sistematica più attenta alle dinamiche processuali reali condurrebbe ad esiti poco convincenti.

Si dovrebbe, difatti, anche rilevare che la paventata pratica “pretestuosa” ed i correlati effetti “dilatori”, ben potrebbero essere coltivati attraverso l’articolazione di motivi specifici che, come tali, sfuggirebbero certamente al “filtro” della declaratoria di inammissibilità, mentre obbiettivi fini di giustizia (quali quelli della riforma di una decisone obbiettivamente ingiusta) potrebbero essere perseguiti attraverso motivi privi della necessaria specificità (ovvero della necessaria correlazione critica).

Nessuno ha mai immaginato di voler difendere atti di impugnazione mal fatti, genericamente argomentati ed aspecifici,  e di sostenere che l’appello non debba essere considerato “una cosa seria”, ma non vi è dubbio che l’equiparazione fra atto di appello ed atto di ricorso per cassazione, con il conseguente spostamento in avanti del criterio di censura della specificità estrinseca dei motivi, attraverso una indefinita apertura interpretativa del rapporto fra testo della motivazione della decisione impugnata e testo del motivo di appello, rischia certamente di conferire all’interprete una troppo estesa discrezionalità.

Come si decidono i limiti entro i quali il giudice dell’impugnazione stabilisce che i motivi sono effettivamente “basati su argomenti strettamente collegati agli accertamenti della sentenza di primo grado” e quale è il limite di questo “stretto” collegamento? La “specificità estrinseca” modulata secondo questi parametri è uno strumento che, impropriamente coniugato con quella certa virtus deflattiva che circola negli interpreti del sistema, può produrre proprio quel temuto “depotenziamento dell’appello”. Come ci hanno insegnato alcuni grandi processualisti, la procedura è una materia spuria nella quale facilmente allignano pulsioni “politiche” che, a volte, finiscono con l’orientare l’interprete verso pericolose prassi degenerative.

 

 

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