18/03/2016
La Direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali: pił ombre che luci

Le previsioni della Direttiva sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali paiono non solo non raggiungere lo scopo di elevare garanzie esistenti, ma introducono pericolose deroghe a conquiste che parevano assodate.
Si ringrazia per la collaborazione nella stesura del documento Nicola Canestrini, componente dell’Osservatorio Europa.
 

La Direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali: più ombre che luci

Le previsioni della Direttiva sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali paiono non solo non raggiungere lo scopo di elevare garanzie esistenti, ma introducono pericolose deroghe a conquiste che parevano assodate.

The Directive on the strengthening of certain aspects of the presumption of innocence and the right to be present at trial in criminal proceedings does not give a consistent improvement to the basic requirements of the ECHR as interpreted by the Court of Strasbourg.

Lo scorso 12 febbraio 2016 il Consiglio ha adottato definitivamente la “Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea in data 11 marzo 2016, n. L. 65 .

La direttiva ha l’intento di voler uniformare le varie legislazioni nazionali sul tema delle garanzie processuali penali e di recuperare la fiducia reciproca nella giurisdizione degli Stati membri.

La presunzione di innocenza, in particolare, viene articolata attraverso alcuni profili specifici che ne rappresentano dirette esplicazioni ed incidono in modo effettivo sulle garanzie dell’imputato: l’onere della prova, il diritto al silenzio ed alla non autoincriminazione, il divieto di presentare in pubblico l’imputato come colpevole, il diritto a presenziare al processo.

Giova premettere che la presunzione di innocenza è considerata “pietra angolare del giusto processo”, sancita dall’art. 6, §2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) nonché dall’articolo 48.1 della Carta UE dei diritti fondamentali, oltre che da numerosissime convenzioni e strumenti internazionali; fa peraltro parte delle tradizioni costituzionali di tutti gli Stati membri. oltre che ad essere presente in numerosissime legislazioni nazionali extraeuropee.

Per lo standard della Convenzione come interpretata della Corte europea per i diritti dell’Uomo (“standard CEDU”), che la configura come una sorta di cerniera fra i contenuti generali del diritto al “giusto processo” e la disciplina degli specifici diritti dell’accusato, la presunzione di innocenza costituisce uno degli elementi essenziali della più generale nozione di “equità processuale”; le relative doglianze sono spesso esaminate dalle Corte EDU con riferimento congiunto al primo ed al secondo paragrafo dell’art. 6 CEDU, considerando la procedura nella sua globalità.

Il principio declinato dalla Convenzione e Corte di Strasburgo ha innanzitutto una  portata  processuale, costituendo regola di giudizio, sancendo l’art. 6/2  che “ogni persona accusata di un reato è presunta innocente”; la presunzione di innocenza è peraltro anche regola di trattamento dell’accusato (“... fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”): inoltre, la Corte  ha affermato che il principio declinato sub 6/2 CEDU richiede, tra l’altro, che i giudici non debbano approcciare il caso con il pre-giudizio della fondatezza delle accuse, che l’onere della prova gravi sull’accusa (almeno di principio) e che il dubbio giovi all’accusato.

La Corte europea ha peraltro riconosciuto una portata extraprocessuale del principio in parola, sancendo che comportamenti di pubbliche autorità, prima o dopo il processo, o campagne mediatiche che presentino l’imputato come colpevole,  violino la presunzione di innocenza.

La direttiva punta ad uniformare le legislazioni dei vari paesi membri con l’intento dichiarato di “rafforzare il diritto a un equo processo nei procedimenti penali, stabilendo norme minime comuni relative ad alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo” e di “rafforzare la fiducia degli Stati membri nei reciproci sistemi di giustizia penale e, quindi, a facilitare il riconoscimento reciproco delle decisioni in materia penale” (consideranda 9 e 10).

Se la ragion d’essere dell’iniziativa legislativa in commento è quella di individuare norme minime comuni concernenti “alcuni aspetti” della presunzione di innocenza nei procedimenti penali e il diritto di presenziare al processo penale (art. 1) anche in tali limitati aspetti non solo il legislatore europeo non è riuscito ad innalzare lo standard CEDU, che anzi su questioni di fondo pare essere pericolosamente messo in discussione.

Così, ad esempio,  l’articolo 2, circoscrivendo  l’ambito di applicazione della direttiva, meritevolmente ampliando l’applicabilità del principio di presunzione di innocenza “fino alla definitività della condanna”, esclude la applicabilità della direttiva non dovrebbe applicarsi ai procedimenti civili o ai procedimenti amministrativi “anche quando questi ultimi possono comportare sanzioni, quali i procedimenti in materia di concorrenza, commercio, servizi finanziari, circolazione stradale, fiscalità o maggiorazioni d'imposta, e alle indagini connesse svolte da autorità amministrative”  e così sconfessando lo standard CEDU sancito con la nota sentenza Engel della Corte EDU. Ancora, e adifferenza di quanto previsto dalla Direttiva 2013/48/UE sul diritto di avvalersi di un difensore, che sub art. 2/3 esplicitamente estende il campo di applicazione “alle persone diverse da indagati o imputati che, nel corso di un interrogatorio da parte della polizia o di altre autorità di contrasto, assumano la qualità di indagati o imputati”, la direttiva del tutto inspiegabilmente nulla dispone sull’assunzione della qualità di indagato in un momento successivo alla audizione da parte delle autorità investigative; infine, sempre l’art. 2 del provvedimento in commento limita inoltre il campo di applicazione della direttiva alle sole persone fisiche, escludendo quindi le persone giuridiche,.

L’esclusione delle persone giuridiche pare quindi in contrasto con la volontà della direttiva di “rafforzare la fiducia degli Stati membri nei reciproci sistemi di giustizia penale e, quindi, a facilitare il riconoscimento reciproco delle decisioni in materia penale” (considerando 10); ciò anche in considerazione del fatto che manca uno standard CEDU sul diritto al silenzio delle persone giuridiche, che saranno maggiormente soggette ad indagini con l’istituzione, in futuro, dell’Ufficio del Procuratore Europeo. Peraltro, le persone giuridiche sono già soggette a numerosi strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia, come ad esempio l’Ordine di indagine Europeo 2014/41/EU dell’aprile 2014 o la Decisione quadro 2003/577/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa all'esecuzione nell'Unione europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro. 

La stessa enunciazione del principio della presunzione di innocenza dell’articolo 3, che stabilisce che “gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza”, manca di ogni riferimento concreto, laddove ad. esempio non stabilisce quali condizioni procedurali siano necessarie per dare corpo  al principio: la Corte EDU, ad esempio, ha ritenuto che il principio comporti la necessità per l’accusa di provare la colpevolezza durante il processo, o che il solo ricorso al diritto al silenzio  da parte dell’indagato non possa costituire fondamento per la condanna, stabilendo un nesso fra il principio in parola e la possibilità di difendersi anche mediante l’accesso pieno alle accuse formulate, in modo da poter preparare la difesa adeguatamente.

Anche l’articolo 4, rubricato “riferimenti in pubblico alla colpevolezza”, che impone agli Stati membri di “adottare le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”, specificando che “ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell'indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità” (cfr. considerando 16), pare non centrare appieno lo standard CEDU (cfr. Allenet de Ribemont c. Francia, ricorso 15175/89, sentenza 10 febbraio 1995) come rafforzato dalla  Raccomandazione Rec(2003)13 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sull’informazione nei processi penali attraverso i mezzi di comunicazioni di massa, a cui la direttiva manca purtroppo di fare riferimento.

L’articolo 5, laddove prescrive che gli indagati o imputato non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica, fa salve le misure di coercizione fisica che si rivelino necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi; ancora una volta lo standard CEDU pare di maggiore consistenza, laddove rileva come l’indagato / imputato non possa essere trattato in maniera tale da violare il principio della presunzione di innocenza.

L’articolo 6 tratta dell’onere della prova prescrive agli Stati membri l’obbligo di assicurare che l’onere di provare la colpevolezza competa all’accusa e non alla difesa: il considerando 22 fa peraltro salvi “eventuali poteri di accertamento dei fatti esercitati d'ufficio dal giudice, la sua indipendenza nel valutare la colpevolezza dell'indagato o imputato e il ricorso a presunzioni di fatto o di diritto riguardanti la responsabilità penale di un indagato o un imputato”.

Il riferimento all’attività di ricerca della prova da parte del giudice è particolarmente delicato per il sistema italiano, laddove l’attivismo probatorio del giudice potrebbe incidere, limitandola, sulla sua imparzialità: il penslaist non può rilevare come addirittura queste “presunzioni di colpevolezza”  vengano incredibilmente   legittimate, perché viene espressamente previsto che esse “dovrebbero essere confinate entro limiti ragionevoli, tenendo conto dell'importanza degli interessi in gioco e preservando i diritti della difesa, e i mezzi impiegati dovrebbero essere ragionevolmente proporzionati allo scopo legittimo perseguito. Le presunzioni dovrebbero essere confutabili e, in ogni caso, si dovrebbe farvi ricorso solo nel rispetto dei diritti della difesa” (considerando 22).

L’articolo 7 tratta del diritto al silenzio e  del diritto di non autoincriminarsi, avendo riconosciuto il considerando 24 che “il diritto al silenzio è un aspetto importante della presunzione di innocenza e dovrebbe fungere da protezione contro l'autoincriminazione”; esso limita peraltro il diritto in parola al “reato contestato”, e non già a ogni reato riferibile alla persona sottoposta all’interrogatorio.

Se i consideranda fanno opportunamente riferimento alle direttive procedurali, ed in particolare alla Direttiva 2012/13/UE sul diritto all'informazione nei procedimenti penali, tale riferimento manca nel corpo della direttiva, così come manca ogni riferimento alla Direttiva 2013/48/UE sul diritto di avvalersi di un difensore nel procedimento penale: secondo la standard CEDU, “l’accesso al difensore nelle fasi iniziali è una di quelle garanzie procedurali alle quali la Corte farà particolare riferimento nel decidere se una procedura abbia vanificato la essenza più profonda del diritto a non autoincriminarsi”.

Il considerando 27, dopo aver chiarito come il diritto al silenzio e il diritto di non autoincriminarsi implicano che le autorità competenti non dovrebbero costringere indagati o imputati a fornire informazioni qualora queste non desiderino farlo, stabilisce che “per determinare se il diritto al silenzio o il diritto di non autoincriminarsi sia stato violato, è opportuno tener conto dell'interpretazione del diritto a un equo processo ai sensi della CEDU data dalla Corte europea dei diritti dell'uomo”.

Nella direttiva peraltro manca ogni riferimento alla rinuncia di tali diritti, nonostante la Direttiva 2013/48/UE sul diritto di avvalersi di un difensore abbia espressamente preso in considerazione la rinuncia al diritto in essa previsto (art. 9 Direttiva 2013/48/UE).

L’articolo 7.3 prevede che l'esercizio del diritto di non autoincriminarsi non impedisca alle autorità competenti di raccogliere prove che possono essere ottenute lecitamente ricorrendo a poteri coercitivi legali e che esistono indipendentemente dalla volontà dell'indagato o imputato; il considerando 29 specifica che si potrà trattare di materiale ottenuto sulla base di un mandato, o per il quale sussista l'obbligo per legge di conservarlo e fornirlo su richiesta, o l'analisi dell'aria alveolare espirata, del sangue o delle urine, o dei tessuti corporei per la prova del DNA.

Il successivo paragrafo 4 dell’articolo 7 stabilisce pericolosamente che “gli Stati membri possono consentire alle proprie autorità giudiziarie di tenere conto, all'atto della pronuncia della sentenza, del comportamento collaborativo degli indagati e imputati”: non vi è alcuna spiegazione in cosa possa consistere un “comportamento collaborativo” (di certo non è esclusa una ammissione di colpa), e ciò appare contraddittorio con lo scopo della direttiva e potenzialmente pregiudizievole per i diritti in parola. Infatti, la previsione in parola ben potrebbe essere intesa come incentivo ad una dichiarazione di colpevolezza, e come tale compromettere il diritto dell’indagato / imputato ad essere considerato innocente fino alla condanna definitiva, alleggerendo l’onere della prova in capo all’accusa e fungendo da strumento di pressione sugli indagati affinchè ammettano la propria colpevolezza.

Il successivo paragrafo 5 dell’articolo 7, accrescendo (finalmente) lo standard CEDU, stabilisce che “l'esercizio da parte degli indagati e imputati del diritto al silenzio o del diritto di non autoincriminarsi non può essere utilizzato contro di loro e non è considerato quale prova che essi abbiano commesso il reato ascritto loro”; il successivo capoverso specifica che “il presente articolo non impedisce agli Stati membri di prevedere che, in relazione ai reati minori, lo svolgimento del procedimento, o di alcune sue fasi, possa avvenire per iscritto o senza un interrogatorio dell'indagato o imputato da parte delle autorità competenti in merito al reato ascritto loro, purché ciò rispetti il diritto a un equo processo.”

Il successivo articolo 8 (in uno con i consideranda 34 e 35) sancisce il diritto degli indagati e imputati di presenziare al processo, ammettendo ancora deroghe in ribasso rispetto allo standard CEDU.

Secondo il successivo paragrafo 3 dell’articolo in commento, una sentenza resa in absentia con il rispetto delle condizioni previste  “può essere eseguita nei confronti dell'indagato o imputato”; peraltro, “qualora gli Stati membri prevedano la possibilità di svolgimento di processi in assenza dell'indagato o imputato, ma non sia possibile soddisfare le condizioni di cui al paragrafo 2 del presente articolo perché l'indagato o imputato non può essere rintracciato nonostante i ragionevoli sforzi profusi, gli Stati membri possono consentire comunque l'adozione di una sentenza e l'esecuzione della stessa. In tal caso, gli Stati membri garantiscono che gli indagati o imputati, una volta informati della decisione, in particolare quando siano arrestati, siano informati anche della possibilità di impugnare la decisione e del diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, in conformità dell'articolo 9”.

Incredibilmente i paragrafi 4 e 5 dell’articolo 8 in commento lasciano “impregiudicate le norme nazionali” riguardanti l’esclusione dell’indagato / imputato dal processo e  lo svolgimento del processo per iscritto, essendo poco compatibili tali riserve con una normativa che mira ad accrescere diritti sul territorio dell’Unione Europea.

Il successivo articolo 9, rubricato “diritto a un nuovo processo”, stabilisce che “gli Stati membri assicurano che, laddove gli indagati o imputati non siano stati presenti al processo e non siano state soddisfatte le condizioni di cui all'articolo 8, paragrafo 2, questi abbiano il diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria. In tale contesto, gli Stati membri assicurano che tali indagati o imputati abbiano il diritto di presenziare, di partecipare in modo efficace, in conformità delle procedure previste dal diritto nazionale e di esercitare i diritti della difesa.”

Infine, l’articolo 10 , rubricato “mezzi di ricorso”, stabilisce che “gli Stati membri provvedono affinché gli indagati e imputati dispongano di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti conferiti dalla presente direttiva”; il considerando 44 specifica che per “mezzo di ricorso efficace” dovrebbe intendersi un ricorso che avesse “per quanto possibile, l'effetto di porre l'indagato o imputato nella posizione in cui questi si sarebbe trovato se la violazione non si fosse verificata, così da salvaguardare il diritto a un equo processo e i diritti della difesa”, senza piena corrispondenza con il diritto gli articoli 13 della Convenzione come interpretato dalla Corte,  e cioè effettivo sia in teoria che in pratica (ivi compresa una ragionevole possibilità di successo).

Il successivo paragrafo 2 dell’articolo in commento stabilisce che “fatti salvi le norme e i sistemi nazionali in materia di ammissibilità delle prove, gli Stati membri garantiscono che, nella valutazione delle dichiarazioni rese da indagati o imputati o delle prove raccolte in violazione del diritto al silenzio o del diritto di non autoincriminarsi, siano rispettati i diritti della difesa e l'equità del procedimento”: non vi è alcun riferimento a prove ottenute in violazione all’articolo 3, e cioè mediante ricorso a tortura o trattamenti inumani o degradanti, limitandosi il considerando 45 a prescrivere che In tale contesto “si dovrebbe tener conto” dello  standard CEDU in relazione a prove ottenute in violazione dell’articolo 3: una formulazione di certo non all’altezza dell’importanza di proteggere ogni individuo da tortura o trattamenti inumani o degradanti.

Come evidenziato dall’analisi dell’Unione delle Camere Penali dell’(allora) bozza della direttiva con il comunicato dd. 24 maggio 2014, significativamente già all’epoca intitolato “La proposta di direttiva sulla presunzione di innocenza: una delusione!”, la direttiva non convince: non ha creato raccordi con le direttive procedurali già adottate, non ha completato, innalzandoli,  gli standard delle garanzie previste dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, con il dubbio che essa possa essere invocata per interpretare al ribasso gli standard internazionali nelle materie disciplinate dalla direttiva, facendo ad esempio leva sul riferimento contenuto nella direttiva in parola all’equità complessiva del processo, equità complessiva che potrebbe pregiudicare persino l’esercizio dei singoli diritti inviolabili, aprendo così a pericolose valutazioni discrezionali sulla concreta effettività delle garanzie.

Roma, 18 marzo 2016

L’Osservatorio Europa