05/02/2025
Corte Europea dei diritti dell'Uomo e Terra dei fuochi

Come ampiamente riportato dai media non solo italiani, lo scorso 30 gennaio la Corte europea dei diritti umani ha emesso una sentenza contro l'Italia nel caso Cannavacciuolo e altri contro l'Italia, mettendo in luce le gravi carenze del sistema penale e di protezione ambientale del Paese. La sentenza fa luce sulla decennale malagestione dello smaltimento dei rifiuti pericolosi in Campania, nota come "Terra dei Fuochi", e sulla mancanza di un'adeguata risposta governativa per prevenire i rischi ambientali e sanitari. La nota dell'Osservatorio Europa 

Come ampiamente riportato dai media italiani ed internazionali, lo scorso 30 gennaio la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha emesso una sentenza contro l'Italia, nel caso “Cannavacciuolo e altri contro l'Italia”: la sentenza, mettendo in luce le gravi carenze del sistema penale e di protezione ambientale del Paese, fa luce sulla decennale malagestione dello smaltimento dei rifiuti pericolosi in Campania e sulla mancanza di un'adeguata risposta governativa per prevenire i rischi ambientali e sanitari. La vicenda della c.d. “Terra dei Fuochi” è, purtroppo, comunemente nota per la sua drammaticità; basterà, pertanto, riepilogare come essa riguardi un fenomeno di inquinamento sistematico, decennale, diffuso e su larga scala, causato dallo scarico illegale, dall'interramento, dall'incenerimento e/o dall'abbandono incontrollato di rifiuti pericolosi, speciali e urbani (spesso ad opera di gruppi criminali organizzati e, comunque, da parte di industrie, imprese e individui che operavano al di fuori dei limiti di qualsiasi condotta lecita), in alcune zone della Regione Campania (complessivamente denominate, appunto, “Terra dei Fuochi”), comprensive di 90 Comuni campani con una popolazione di circa 2,9 milioni di abitanti.

Sul piano dell’ammissibilità dei ricorsi, la Corte ha ritenuto (§§ 215-222) che, nell’ottica della dedotta violazione degli artt. 2 e 8 Cedu, i ricorsi presentati da comitati e associazioni fossero incompatibili ratione personae con le disposizioni della Convenzione e che dovessero conseguentemente essere respinti ai sensi dell'art. 35 §§ 3 e 4 della stessa: la sentenza ha ritenuto che le associazioni non fossero state direttamente colpite dalle violazioni dedotte e non avessero la qualità di “vittima”, in quanto i diritti alla vita e alla salute, così come l'integrità fisica goduta dagli esseri umani, sono suscettibili di essere esercitati solo dai loro membri (salva la circostanza – non dedotta nel caso di specie – che questi ultimi soffrano di una vulnerabilità tale che impedisca loro di presentare un ricorso alla Corte a proprio nome o che non siano altrimenti in grado di farlo). Di interesse, inoltre, il fatto che la Corte abbia ritenuto che i rimedi interni non avessero garantito ai ricorrenti adeguate misure di protezione, anche laddove erano intervenuti risarcimenti danni in esito a costituzioni di parte civile in processi penali (risarcimenti non ritenuti “rimedio adeguato” a fronte della situazione di inquinamento diffuso e delle protratte omissioni, da parte dello Stato, nella adozione di misure conseguenti).

Le considerazioni della Corte si sono quindi concentrate sulla violazione del diritto alla vita di cui all’art. 2 Cedu, posto che le doglianze relative all’art. 8 (nell’ottica sia della protezione della salute e del benessere dei ricorrenti, sia dell'omissione di informazioni sui relativi rischi) sono state ritenute assorbite – dunque non meritevoli di autonomo esame – perché basate essenzialmente sulle medesime argomentazioni (§§ 469-470).

La Corte ha innanzitutto ritenuto che l’art. 2 fosse applicabile al caso di specie, tenuto conto che l’illegale attività di inquinamento – per la sua diffusione e durata – aveva integrato (secondo quanto prescritto dalla precedente giurisprudenza di Strasburgo) un rischio “reale” (nel senso di “serio, autentico e sufficientemente accertabile”) e “imminente” (quindi fisicamente e temporalmente prossimo) per la vita umana, rischio conosciuto dalle autorità nazionali quantomeno a far tempo dai primi anni ’90.

Si è concluso, dunque, che sussisteva il dovere dello Stato di intraprendere tutti i passi appropriati per salvaguardare la vita dei residenti della “Terra dei Fuochi” nell’ottica dell’art. 2 della Convenzione (§ 392), enucleando i seguenti obblighi (§ 395): «le autorità avevano, innanzitutto, il dovere di intraprendere una valutazione completa del fenomeno dell'inquinamento in questione, vale a dire identificare le aree colpite e la natura e l'estensione della contaminazione in questione, per poi intervenire al fine di gestire i rischi emersi. Ci si aspettava, poi, che esse indagassero sull'impatto di questo fenomeno di inquinamento sulla salute degli individui che vivono nelle aree interessate. Allo stesso tempo, ci si sarebbe ragionevolmente aspettato che le autorità intraprendessero azioni per combattere le condotte che hanno dato origine al fenomeno dell'inquinamento, vale a dire lo smaltimento illegali di scarico, interramento e incenerimento dei rifiuti. Le autorità avevano inoltre l'obbligo di fornire alle persone che vivono nelle aree colpite dal fenomeno dell'inquinamento informazioni tempestive che consentissero loro di valutare i rischi per la loro salute e la loro vita».

I suddetti obblighi, nella valutazione della Corte Europea, non sono stati rispettati dallo Stato italiano: secondo la sentenza le autorità italiane non hanno adottato misure sistematiche e coordinate per proteggere i residenti dallo smaltimento e dall'incenerimento illegale dei rifiuti, con la conseguenza che la risposta delle autorità è stata carente di diligenza e urgenza, comportando una violazione della dedotta norma convenzionale.

Rinviando alla lettura della articolata sentenza, in cui vengono diffusamente enucleate le plurime violazioni in relazione ai singoli punti sopra citati, di particolare interesse risultano, in questa sede, le valutazioni della Corte Europea specificamente dedicate alla repressione delle condotte illecite da parte del sistema penale.

La sentenza ha ritenuto doverosa la creazione di un quadro normativo (oltre che amministrativo) volto a fornire un'efficace deterrenza nei confronti delle minacce (§ 380) e ha quindi rivolto attenzione anche al settore specifico della legislazione penale (§§ 435-447).

A tal riguardo, la sentenza “Cannavacciuolo” ha stigmatizzato come nonostante l’intervento di numerose Commissioni Parlamentari ed il succedersi di numerose riforme nell’ambito delle normative ambientali, il sistema penale italiano non sia riuscito ad offrire un'efficace deterrenza contro i reati ambientali. Il fenomeno, nonostante i rapporti risalenti agli anni '90 già descrivessero un diffuso smaltimento illegale di materiali tossici, è stato inizialmente contrastato attraverso mere contravvenzioni, limitando in tal modo la gravità delle pene e gli strumenti investigativi a disposizione delle forze dell'ordine.

La sentenza ha pertanto sottolineato che le sanzioni per i reati ambientali sono rimaste troppo basse rispetto alla gravità e ai profitti derivanti dallo smaltimento illegale dei rifiuti, rendendo gli sforzi di contrasto sostanzialmente inefficaci.

In tale quadro, le stesse previsioni del «primo delitto di “Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”» (come noto, tramite la L. 23.3.2001, n 90 che ha introdotto l’art. 53-bis nel D.L.vo 22/1997, poi riprodotto nell’art. 260 del D.L.vo 152/2006 ed infine trasfuso nell’art. 452-quaterdecies del codice penale) e, successivamente, del delitto di “Combustione illecita di rifiuti” di cui all’art. 256-bis D.L.vo 152/2006 (D.L. 10.12.2013, n° 136) vengono dalla Corte considerate misure di dubbia efficacia: «Senza intraprendere una valutazione in astratto di tale quadro, la Corte ritiene che, come descritto in precedenza, e sullo sfondo delle preoccupazioni espresse dalle commissioni d'inchiesta parlamentari, emergono dubbi sull'efficacia del quadro giuridico in questione nella prevenzione dei crimini ambientali, compresi quelli derivanti dalle condotte oggetto del presente caso, almeno fino alla promulgazione della Legge n. 68 nel 2015. Inoltre, fino al 2015, la risposta legislativa sembra essere stata non solo non convincente in termini di efficacia, ma anche lenta e frammentaria, con la creazione di singoli reati gravi nel corso del tempo ma senza alcun tentativo di rivedere, in modo organico, le carenze del sistema penale individuate dalle Commissioni dello stesso Parlamento italiano» (§ 440).

Il primo intervento legislativo di rilievo viene, dunque, considerato quello relativo all’introduzione del Titolo VI-bis del codice penale (“Delitti contro l’ambiente”: articoli da 452-bis a 452-quaterdecies c.p.) attraverso la L. 22.5.2015, n° 68. Ciononostante, anche in relazione ad esso, nel procedere alla valutazione dell’«azione intrapresa» dalle autorità italiane, la Corte ha rilevato che il Governo non aveva fornito alcuna prova di procedimenti avviati in relazione ai nuovi reati ambientali del 2015 (né, peraltro, in relazione al reato di combustione illecita di rifiuti introdotto nel 2013) e che, per il resto, i procedimenti portati alla sua attenzione:

in alcuni casi si erano conclusi con dichiarazione di prescrizione (in un caso con un trasferimento di competenza territoriale che aveva verosimilmente condotto al medesimo esito estintivo finale), con la conseguenza di poter «difficilmente essere visti come prova di un effettivo perseguimento dei reati derivanti dalla condotta illecita in esame e relativi al fenomeno dell'inquinamento in questione, come sembra sostenere il Governo»: § 445);
in tre soli casi con la condanna degli imputati, esempi, questi ultimi che «sebbene… forniscono la prova dell'efficacia dell'azione penale», per il loro «esiguo numero… non sono tali da soddisfare la Corte che… lo Stato abbia preso le misure necessarie per proteggere i residenti della Terra dei Fuochi» (§ 446).

In considerazione di tutto quanto sopra, è stata conseguentemente dichiarata la violazione dell’art. 2 della Convenzione.

La sentenza ha dunque criticato la lentezza e l'inefficacia dei procedimenti giudiziari per i reati ambientali: basandosi su procedure burocratiche e sulla lunga durata dei processi penali, il sistema giudiziario ha fatto sì che per molti casi maturasse la prescrizione ancor prima di arrivare ad una sentenza e che le indagini sul traffico di rifiuti e sulle discariche illegali fossero spesso ostacolate dalla mancanza di unità investigative specializzate e di analisi ambientali forensi, indebolendo ulteriormente le capacità di applicare la legge.

Ulteriore critica mossa dalla Corte ha riguardato l'incapacità del Governo italiano di istituire un meccanismo di monitoraggio indipendente o una piattaforma di informazione collettiva per affrontare i problemi di salute pubblica. La sentenza ha evidenziato che le autorità italiane, nonostante fossero consapevoli della crisi ambientale da decenni, non siano riuscite a fornire misure di bonifica tempestive ed efficaci. A causa di tale inadempienza, le comunità locali hanno subito un aumento del rischio di cancro e di altre malattie legate all'esposizione a sostanze tossiche, con un accesso inadeguato all'assistenza sanitaria e al risarcimento dei danni.

In conclusione, si evidenzia che la Corte Europea ha ritenuto di accedere alla procedura della sentenza pilota, in ragione del carattere diffuso dei fenomeni di inquinamento riscontrati, realizzati nel corso di decenni e in maniera sistematica, in uno con le lacune e i ritardi da parte dello Stato nell’affrontare la questione, tali da denotare un vero e proprio «fallimento sistematico nel rispondere adeguatamente» al problema, ancora attuale dai più recenti documenti (relativi agli anni 2018-2021) acquisiti al giudizio (§§ 490-492). La procedura della sentenza pilota ha portato alla conseguente indicazione di misure che la Corte ha prescritto allo Stato italiano di adottare nel tempo massimo di due anni, per rimediare alle carenze sistemiche (§§ 493-500): per quanto di specifico interesse in questa sede, si evidenzia che le perplessità della Corte in merito all’effettività del sistema repressivo penale non hanno trovato diretta e immediata incidenza nelle misure riparatorie di cui si è imposta l’adozione, nessuna della quali (1. previsione di un approccio strategico complessivo e coordinato, con una chiara delimitazione delle competenze, così da evitare una frammentazione di responsabilità tra i diversi livelli dell’apparato statale e le differenti agenzie; 2. previsione di un meccanismo indipendente di monitoraggio della situazione e delle misure introdotte; 3. previsione di una piattaforma informativa, comprensibile e accessibile al pubblico, che contenga tutte le informazioni rilevanti) appare specificamente e inderogabilmente rivolta al sistema penale.

Spetterà, quindi, al Governo italiano predisporre misure specifiche per conformarsi alla sentenza, così da prevenire ulteriori danni.

Roma, 5 febbraio 2025
L'Osservatorio Europa UCPI 

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