Un breve commento critico alla sentenza n° 47557/2024 della prima sezione penale della Suprema Corte di Cassazione
È (ed era) circostanza notoria, o per lo meno tale avrebbe dovuto essere a tutti gli operatori del diritto - cancelleria, avvocatura e magistratura - la modalità con cui depositare, fino al 31.12.2024, gli atti di impugnazione in materia penale.
Alla luce, infatti, delle modifiche introdotte con il d.lgs. 150 del 2022 al codice di rito, fino all’ultimo giorno dell’anno ormai trascorso, il deposito delle impugnazioni avrebbe potuto espletarsi mediante deposito in cancelleria, ovvero mediante inoltro a mezzo PEC. alla cancelleria del Giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (eccezion fatta per il riesame e l’appello cautelare).
Mentre il deposito cartaceo non ovviamente ha creato particolari problemi in tale periodo di transizione, alcune questioni sono invece sorte sul deposito a mezzo PEC, in particolare con riferimento all’individuazione dell’indirizzo di posta elettronica al quale indirizzare l’atto.
In particolare, una delle questioni, già sottoposte anche al vaglio della Suprema Corte di Cassazione, concerne l’inoltro dell’atto di impugnazione all’indirizzo di posta elettronica individuato dal DGSIA con apposito provvedimento e contenuto nel relativo elenco oggetto di pubblicazione.
Il disposto di cui all’art 87 bis d.lgs. 150 del 2022 è chiaro nello statuire quali siano le modalità di deposito dell’atto a mezzo PEC (in alternativa al deposito cartaceo):
- obbligo di inoltro “dall'indirizzo di posta elettronica certificata del difensore a quello dell'ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato, individuato ai sensi del comma 1, con le modalità e nel rispetto delle specifiche tecniche ivi indicate” (comma 4)
- obbligo di inoltro “agli indirizzi di posta elettronica certificata degli uffici giudiziari destinatari, indicati in apposito provvedimento del Direttore generale per i sistemi informativi automatizzati, pubblicato nel portale dei servizi telematici del Ministero della giustizia (comma 1)
Ciò nonostante una recentissima pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 47557 del 2024), ha patentemente equivocato la normativa vigente, incorrendo in un errore di fatto che ha comportato gravi conseguenze in tema di lesione dei diritti.
Con la richiamata pronuncia, l’estensore, ha ritenuto che, nel caso in cui alla medesima Autorità Giudiziaria siano stati associati più indirizzi di posta elettronica certificata, sia riservata al DGSIA la corretta attribuzione delle singole caselle, in base alla natura degli atti da destinare ai vari uffici.
Tale assunto è assolutamente erroneo, in quanto il DGSIA si è limitato sin ora semplicemente ad indicare l’elenco degli indirizzi di posta certificata asserviti alla ricezione degli atti ed associati a ciascuna Autorità, sia Requirente che Giudicante; certamente il DGSIA non ha mai indicato – ove una medesima Autorità Giudiziaria, sia essa Requirente o Giudicante, disponga di più caselle – la tipologia di atti che le singole caselle sono destinate a ricevere, trattandosi evidentemente di attività ad esclusivo appannaggio dei dirigenti dei singoli Uffici giudiziari.
Si tratta in questi casi di provvedimenti organizzativi, aventi differente ratio a seconda dell’ufficio di riferimento, che certamente non possono assurgere a normativa primaria (nemmeno secondaria, in effetti), né conseguentemente incidere sull’ammissibilità dell’atto trasmesso.
La decisione assunta dalla Suprema Corte, muovendo dall’errata convinzione che la distribuzione delle caselle all’interno del medesimo Ufficio giudiziario avvenga ad opera del DGSIA, ha dunque ritenuto inammissibile l’appello proposto con un provvedimento totalmente illegittimo.
Tale erroneo argomentare si pone, peraltro, in contrasto con altra precedente pronuncia emessa dalla medesima sezione della Suprema Corte di Cassazione, che aveva in caso analogo (atto inoltrato ad indirizzo diverso da quello associato dagli uffici, ma rientrante tra quelli dell’elenco DGSIA), ritenuto che: “pur rinnovando il principio di diritto secondo il quale, in tema di impugnazioni, è inammissibile il gravame depositato telematicamente, presso un indirizzo di posta elettronica certificata diverso da quello indicato nel decreto del Direttore generale per i sistemi informativi automatizzati di cui all'art. 87-bis, comma 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (tra le altre, Sez. 4, n. 48804 del 14/11/2023, Ciattaglia, Rv. 285399) - rileva che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato il condivisibile orientamento secondo il quale se l'indirizzo di posta certificata dell'Ufficio giudiziario destinatario dell'impugnazione è un indirizzo comunque dedicato (cfr. Sez. 5, n. 24953 del 10/05/2021, Garcia Genesis De Jesus, Rv. 281414 - 01), detto utilizzo non è causa di inammissibilità dell'impugnazione.
Invero, si è affermato (nel caso preso in esame nel precedente citato, in tema di disciplina pandemica da Covid-19, nei procedimenti cautelari) che non è causa di inammissibilità dell'impugnazione la sua trasmissione a un indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) dell'Ufficio giudiziario di destinazione, diverso da quello indicato come abilitato dal provvedimento organizzativo del Presidente del Tribunale, ma, comunque, compreso nell'elenco allegato al provvedimento del Direttore generale dei Sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia contenente l'individuazione degli indirizzi PEC degli uffici giudiziari destinatari dei depositi di cui all'art. 24, comma 4, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176. Infatti, si è rilevato che tale sanzione processuale è prevista dall'art. 24, comma 6-sexies, lett. e), d.l. cit. esclusivamente in caso di utilizzo di indirizzi PEC di destinazione non ricompresi neppure nell'allegato del citato provvedimento direttoriale (Cass. Pen. sez. 1, sentenza n. 654 del 2025 – ud. 02.10.2024).
In tale contrasto, appare ancor più emblematica altra pronuncia della medesima sezione, emessa a maggio 2024 - sent. 33324 del 2024 - che ha ritenuto validamente proposta l’impugnazione di un Ufficio di Procura depositata ad indirizzo PEC non ricompreso tra quelli di posta elettronica certificata previsti dal DGSIA. Segnatamente la Corte ha ritenuto infatti, di dover disattendere le obiezioni proposte circa l’ammissibilità dell’atto, evidenziando come “la difesa ne contesta la validità ma da un lato non indica quale sarebbe stata la casella di posta elettronica cui inviare l’atto”, come se non fosse sufficiente l’invio ad indirizzo PEC “fuori legge”.
In tale fase di transizione, una sentenza come quella adottata il 30.12.2024 dalla Suprema Corte di Cassazione, in contrasto tra l’altro con due precedenti pronunce della medesima sezione, apre scenari inquietanti, denunciando una patente mancata conoscenza di alcuni fondamentali elementi normativi regolanti nel regime transitorio il deposito degli atti.
Roma, 16.01.2025
L'Osservatorio Informatizzazione del processo penale
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Una pronuncia davvero singolare della Suprema Corte di Cassazione Scarica