21/12/2018
Il 'Governo del cambiamento' (s)travolge anche gli istituti di pena

Pubblichiamo un documento della Giunta e dell'Osservatorio Carcere.

Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con nota del 5 dicembre 2018, ha indicato quali saranno gli obiettivi per “migliorare la natura e la qualità dell’azione del Dipartimento che ha bisogno di riprendere a crescere”.

In premessa, viene chiarito che “non verrà fatto cenno alla carenza di personale e di beni nella Polizia Penitenziaria, al bisogno di creare o comunque rafforzare  il personale civile e del Comparto Funzioni Centrali (si pensi ai contabili, agli educatori, ai funzionari pedagogici, ecc..), alla necessità d’istituire ruoli tecnici della Polpen, all’esigenza di rimodulare l’assistenza sanitaria – anche di tipo psichiatrico – e di rendere più responsabili gli organismi regionali, alla necessità d’intervenire sugli immobili del patrimonio penitenziario, e così via”.

Volendo “garantire la tempestiva esecuzione delle disposizioni” contenute nel documento, il Capo del Dipartimento ha innanzitutto evidenziato alcune – solo alcune – delle molteplici criticità che affliggono il sistema penitenziario italiano, affermando che, nonostante tutto, si deve potenziare ed ottimizzare l’attività svolta.

Una lodevole iniziativa che, prendendo atto della catastrofica situazione dal futuro più che incerto, vuole ottimizzare le condizioni generali “dell’Amministrazione penitenziaria che risultano di primo acchito complesse e disarticolate”.

Meritorio impulso che, purtroppo, essendo “in simbiosi e sintonia con la strada segnata dal Ministro della Giustizia” – e non potrebbe essere altrimenti – ignora principi fondamentali che dovrebbero costituire la base di una concreta e non aleatoria dichiarazione d’intenti.

Antieconomici vengono definiti i piccoli istituti (al di sotto delle 50 unità detentive) e, pertanto, si auspica la loro chiusura o comunque l’ampliamento, in linea con i propositi di nuova edilizia penitenziaria già evidenziati nell’atto d’indirizzo per il 2019, sottoscritto il 3 ottobre u.s. dal Ministro della Giustizia.

La “ricetta” del Governo è più carcere e meno misure alternative, in totale contrasto con il principio che aveva ispirato la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, che non solo rifletteva il dato costituzionale della “rieducazione” del condannato e del suo reinserimento sociale, ma si basava sulla statistica della recidiva che coinvolge maggiormente coloro che scontano l’intera pena in carcere.

Il disegno governativo, dunque, prevede più carcere e quindi “più carceri!”, che nei desiderata del Capo del Dipartimento devono essere strutture grandi con molti detenuti, al fine di contenere la spesa pubblica.

Soluzione non nuova. In passato si è rivelata fallimentare con edifici costruiti, inaugurati, vandalizzati e mai messi in funzione per mancanza di risorse ed ha rappresentato uno sperpero di danaro pubblico con risvolti penali, le c.d. “carceri d’oro” e che, con l’aumento esponenziale della popolazione detenuta, dovrebbe essere adottata all’infinito, fino a coprire il territorio nazionale di istituti penitenziari.

Sono, invece, gli istituti più piccoli quelli che funzionano meglio per evidenti e logiche ragioni. L’attività trattamentale, infatti, viene effettivamente svolta e il rapporto detenuti/personale si giova di un’umanità sconosciuta altrove. Non è affatto vero, inoltre, che sono antieconomici se si valuta il risultato ottenuto.

Il tema, infatti, è il risultato, ovvero il rispetto dei principi costituzionali che impone allo Stato di garantire al ristretto una detenzione dignitosa, dove la dolorosa privazione della libertà e la lontananza dagli affetti deve essere accompagnata dall’offerta di un percorso rieducativo, presupposto essenziale per il reinserimento sociale e per le stesse ragioni di sicurezza dei cittadini.

Il programma “ministeriale/penitenziario”, invece, vuole grandi strutture per molti detenuti ben rinchiusi nelle loro celle – quelle che dal 1975 sono definite dall’Ordinamento “Camere di pernottamento”, ma che da allora per la quasi totalità dei  reclusi sono il luogo dove trascorrere gran parte della giornata - senza ulteriori oneri e spese da parte dello Stato.

Il Capo del Dipartimento, prendendo atto della “diversificazione dei metodi organizzativi, che vengono creati da ogni singolo direttore senza alcun coordinamento da parte del Dipartimento”, auspica la realizzazione di “uniformi modelli organizzativi, a contenuto standardizzato, che siano adattabili da parte di ciascun direttore alle esigenze e alla realtà del proprio istituto, raccogliendo le best practices più proficue”. Verrà dunque istituito “un tavolo di lavoro, a cui prenderanno parte funzionari, tecnici ed esperti (scelti anche tra gli stessi Comandanti di Polpen, Direttori e/o Provveditori) per la creazione di modelli organizzativi di riferimento”. Tale iniziativa, unitamente al principio che “non si prescinderà, in tutte le iniziative e le azioni di gestione delle risorse umane, da parametri meritocratici e di efficienza”, rappresenta una chiara limitazione all’autonomia delle Direzioni degli Istituti e dei Provveditorati Regionali, che dovranno uniformarsi al potere centrale.

Il tema sotto quest’aspetto è comprendere cosa s’intenda per “best practices”, perché vi è il rischio che la normalizzazione possa far cessare locali modelli virtuosi.

L’istituzione presso ogni Provveditorato Regionale di un “referente per la comunicazione, che funga da organo di raccolta e selezione delle informazioni e delle notizie utili, soprattutto in tema di aggressioni ed eventi critici, da portare all’attenzione dell’Ufficio Stampa del Ministero della Giustizia, per l’eventuale divulgazione all’esterno”, conferma la volontà di volere un’Amministrazione Penitenziaria con un sistema verticistico, ancora più chiusa su se stessa, possibilmente impenetrabile, dove all’esterno devono giungere esclusivamente le notizie volute dal Ministero.

Quel minimo di trasparenza che si era raggiunto in questi anni, viene oscurato e all’esterno del carcere verranno conosciute solo notizie gradite all’Amministrazione.

Al fine di evitare i costi delle numerose traduzioni dei detenuti, il Capo del Dipartimento ritiene che “potrebbe risultare utile ricorrere al sistema delle videoconferenze e della partecipazione a distanza nelle udienze di convalida anche per i detenuti arrestati ... il risparmio di uomini e risorse sarebbe considerevolissimo”.

Tra la valutazione fatta dal Giudice vedendo fisicamente la persona e l’ipotesi che tale giudizio possa essere espresso dinanzi uno schermo, si preferisce quest’ultima, dimenticando che è in gioco la libertà dell’individuo, ignorando i diritti della difesa e le stesse norme del codice di procedura penale (123, norme di attuazione C.P.P.).

Con riferimento al trattamento, si prende atto che “la popolazione detentiva rappresenta una risorsa dell’Amministrazione Penitenziaria, su cui occorre adoperarsi in maniera mirata e costruttiva, allo scopo di migliorarne le condizioni di vita e la qualità di vita”, ma che “il quadro di partenza è problematico”, evidenziando tra le varie criticità il “sovraffollamento e il suo trend di progressiva crescita”.

La soluzione ottimale prospettata è “la realizzazione di nuovi istituti penitenziari” ed “in quest’ottica devono essere lette le iniziative, adottate dal Ministero della Giustizia, di raggiungere intese bilaterali con alcuni paesi stranieri per il rimpatrio dei detenuti, reclusi in Italia, verso il territorio di origine”.

Nell’esprimere un illuminante concetto, che dovrebbe essere il faro-guida di tutte le iniziative dell’Amministrazione Penitenziaria - il detenuto come risorsa - il Capo del Dipartimento segue, purtroppo, la strada governativa (che seppure fosse giusta – e non lo è – sarebbe impossibile e impraticabile) dell’edilizia penitenziaria e ripropone la già prevista e fallimentare ipotesi degli accordi bilaterali.

Sotto il profilo della qualità della vita del detenuto e sulla affettività si indica come “imprescindibile” l’intervento da effettuare. Ci si adopererà per la “visione allargata dei canali televisivi” e per “offrire ai detenuti più occasioni di dialogo e di comunicazione con i propri familiari, sfruttando in forma ottimale le possibilità offerte dalla tecnologia. In questo senso, il Dipartimento ha avviato nei mesi scorsi uno studio di fattibilità che porterà all’istallazione nelle sezioni (che non offrano rischi) degli istituti penitenziari di personal computer, dotati di programmi di videoconversazione (come Skype), in grado di permettere ai detenuti di interagire con i prossimi congiunti, favorendo ed agevolando nuove ed ulteriori occasioni di contatto affettivo”.

Pur apprezzando le intenzioni del Capo del Dipartimento, va evidenziato che pensare di migliorare la “qualità della vita” ampliando la scelta di canali televisivi è un obiettivo più che minimo, laddove nella maggior parte degli istituti non vi è la possibilità di fare attività motoria e le stanze dove i detenuti trascorrono gran parte della giornata sono in condizioni indecenti.

Anche in merito all’ “affettività” la visione di un familiare sullo schermo, rappresenta certamente un’occasione in più di contatto, ma certo è ben lontana dall’idea di affettività indicata dalla Legge Delega per la Riforma e da quanto emerso dal lavoro degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale.

Tra i primi impegni che la Direzione Generale Detenuti e Trattamento dovrà assumere è indicato quello di “definire finalmente un vero modello organico di Sorveglianza Dinamica”. “Si ritiene, in chiave propositiva, che occorra eliminare innanzitutto la confusa sovrapposizione concettuale tra la vigilanza dinamica ed il regime di celle aperte, creando un progetto condivisibile di gestione trattamentale dei detenuti, che uniformi la disparata e diversificata realtà esistente negli istituti penitenziari…. Un intervento armonizzante appare opportuno. Peraltro, la confusione di modelli e di sistemi organizzativi, impiegabili nella gestione dei detenuti, può essere una delle cause scatenanti il fenomeno delle sistematiche e ripetute aggressioni, che avvengono quotidianamente all’interno dei penitenziari…. In simili condizioni non si può soprassedere sulle iniziative disciplinari…”.

La rivisitazione della c.d. “sorveglianza dinamica” e del regime “celle aperte” è una delle principali richieste dei Sindacati di Polizia Penitenziaria e, pertanto, le generiche indicazioni di cambiamento date dal Capo del Dipartimento destano preoccupazione e lasciano intravedere oscuri orizzonti.

Ulteriore impegno indicato nel documento è quello di “accrescere le opportunità lavorative della popolazione ristretta nei penitenziari”. Viene auspicato un intervento normativo che ridefinisca significativamente gli aspetti del lavoro in carcere. Si rileva che “l’aumento delle mercedi (termine modificato in “remunerazione” dalla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, ma che evidentemente ancora piace), oggetto di recente aggiornamento, nell’ottica di equiparare il lavoro penitenziario a quello svolto fuori dagli istituti, ha di fatto ridotto in maniera drastica le chances di lavoro per i detenuti che, quindi, sono molto meno occupati di prima”. Viene indicata l’ ”indubbia forza risocializzante” del lavoro di pubblica utilità. “Le eventuali modifiche normative dovrebbero rendere più funzionale e premiale il ricorso al lavoro di pubblica utilità: auspicabile sarebbe prevedere che, in caso di partecipazione ai progetti di pubblica utilità, i detenuti possano fruire di una qualche agevolazione (sotto forma di liberazione anticipata speciale oppure compensatoria, direttamente proporzionale ai giorni di lavoro). “Ovviamente il Dipartimento dovrà attivarsi anche per procurare e realizzare altre occasioni, come quelle legate al lavoro remunerato…..Un altro canale economico, capace di dare consistente impulso alle possibilità lavorative per i detenuti, è quello collegato alle produzioni alimentari (o di altro genere) che, pur avendo una loro intrinseca qualità, non trovano un importante e significativo sbocco commerciale”.

Le intenzioni del Capo del Dipartimento in tema di lavoro sono senz’altro propositive, ma dovranno fare i conti con il sovraffollamento, con le condizioni in cui versano la maggior parte degli istituti penitenziari e con la stessa politica dell’attuale maggioranza. Aldilà del già evidenziato uso del termine “mercedi”, abolito dalla Riforma e modificato in “remunerazione”, va evidenziato che proprio il Governo ha voluto cancellare, dai lavori della Commissione Ministeriale, la possibilità d’inserire nell’Ordinamento Penitenziario un aumento dei giorni di liberazione anticipata per coloro che svolgevano lavori di pubblica utilità.

La lettura delle linee programmatiche indicate dal neo-nominato Capo del Dipartimento desta forte preoccupazione in quanto nell’immediato si avrà un forte accentramento di potere con la volontà di uniformare l’organizzazione dei singoli istituti. La normalizzazione porterà necessariamente a peggiorare le condizioni in cui versano quei pochi istituti virtuosi, in quanto le loro iniziative difficilmente potranno essere replicate in altri, afflitti dal sovraffollamento e da condizioni strutturali disastrose.

Inoltre l’auspicato uso della videoconferenza per le udienze di convalida è sintomo di una volontà di svilire un momento essenziale per le sorti dell’indagato e di mortificazione per i diritti della difesa.

Nell’insieme appare molto esplicito il ritorno ad un’Amministrazione Penitenziaria poco trasparente, più autoreferenziale di prima, mentre i pochi buoni propositi dovranno fare i conti con l’attuale drammatica situazione per la quale non s’intravede via d’uscita, ma solo un’inarrestabile corsa verso il baratro.

Roma, 20 dicembre 2018

La Giunta

L'Osservatorio Carcere UCPI 

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