19/09/2018
Le dichiarazioni del nuovo Capo del DAP: la posizione dell'Unione

La posizione dell’Unione nell’editoriale del Segretario Petrelli, citato da 'Il Dubbio' di ieri.
 

IL “FABBISOGNO” DI PENE ALTERNATIVE

Il termine “fabbisogno” riferito ad una moltitudine di cittadini privati della libertà può essere una chiave di lettura dell’intervista sul problema delle carceri, rilasciata dal nuovo capo del DAP, Francesco Basentini. Quella espressione sposta infatti l’attenzione del lettore dal rapporto qualitativo del detenuto con le finalità rieducative della pena, al dato puramente quantitativo. Il “sovraffollamento” produce semplicemente la necessità di uno smaltimento, e di qui l’urgenza di “coprire il fabbisogno”, producendo nuovi luoghi ove collocare i detenuti. Lo spazio della rieducazione e della risocializzazione viene ridotto a semplice spazio di contenimento. Costruire nuove carceri diviene così il passaggio assiomatico più semplice. Un passaggio che, tuttavia, nega a priori l’utilità di politiche volte all’utilizzo del carcere come ultima ratio, sia sotto il profilo cautelare che sotto il profilo dell’esecuzione. Ritenere che non sia “edificante agli occhi della popolazione” consentire a soggetti non pericolosi, che si sono magari macchiati occasionalmente di un reato non particolarmente grave, di non entrare in carcere, ma di scontare la propria pena in maniera alternativa, significa negare l’evidenza dell’esperienza carceraria come moltiplicatore di marginalità, di devianza e di recidiva. In una parola negare che la moltiplicazione dell’uso del carcere e la riduzione delle pene alternative, costituisce per la collettività uno spreco di risorse ed una riduzione di sicurezza. E’ per questo motivo che definire “svuota-carceri” una riforma seria, complessa e meditata quale è quella elaborata dalla Commissione Giostra, significa affrontare il problema in chiave puramente ideologica, trascurandone del tutto i reali contenuti e travisandone la filosofia di fondo, volta proprio alla eliminazione di ogni automatismo ed alla attribuzione ai magistrati della Sorveglianza di strumenti più efficaci, più rigorosi e più incisivi di conoscenza dei percorsi trattamentali del singolo condannato, connotati da maggiori opportunità di controllo e di conoscenza. Percorsi che non possono essere in alcun modo confusi con quelli che il nuovo capo del DAP stigmatizza come “una libertà incondizionata e trasversale per tutti quanti i detenuti indistintamente”.  Il problema del carcere e del sovraffollamento non si risolve con la retorica dei rimpatri e non si risolve certo costruendo nuove carceri, ma costruendo al contrario una nuova cultura della pena. Una cultura diffusa e condivisa che ricominci a riconoscere le “alternative al carcere” come una opportunità sociale di riduzione della recidiva, e la possibilità di lavoro per il condannato come un percorso fondamentale di risocializzazione e di riscatto e di riconoscimento di valori condivisi. Non come uno strumento di oppressione o, peggio ancora, come si legge da qualche parte, come una pubblica gogna. Una cultura che restituisca alla condanna la necessaria dimensione umana ed al recupero dell’affettività il significato della pena come progetto futuro ed effettivo, fatto di condivisione, di procreazione e di famiglia. Uno spazio che non potrà certo essere occupato dall’ampliamento dei contatti virtuali affidati alle nuove “tecnologie digitali”. La chiusura totale verso questa progettualità appare davvero disarmante e si coniuga con un silenzio incomprensibile rispetto al problema perdurante e crescente del numero dei suicidi che hanno raggiunto ancora una volta limiti intollerabili. Perchè mai ritenersi soddisfatti, in un paesaggio così desolato, di come la “Torreggiani” ci abbia di fatto “costretti” a “rispettare” quel che stava già scritto a chiare lettere da settant’anni nella nostra Costituzione, e che noi non abbiamo saputo attuare, riducendoci oggi a miseri ragionieri degli spazi residui, a misuratori di letti e comodini. Con l’idea di trasferire l’inutilità della pena in nuovi inutili spazi. Il carcere è certamente un problema e di fronte ai problemi ci sono sempre due modi diversi di reagire. Il tornare indietro è sempre quello sbagliato.       

Infine un’ultima considerazione. Dovrebbe essere noto a tutti che già ora gli arrestati ed i fermati, per i quali è stata disposta la presentazione davanti al giudice con il rito direttissimo, vengono trattenuti presso le Stazioni ed i Commissariati dotati di celle di sicurezza, con ciò evitandosi il fenomeno delle cosiddette “porte girevoli”, inutili e traumatici passaggi in carcere, per chi probabilmente sarà l’indomani rilasciato. Si tratta di una soluzione di ripiego che non dovrebbe essere affatto presa ad esempio in un paese che ancora non si è dotato di strutture detentive, alternative al carcere, destinate alle sole persone sottoposte a custodia cautelare. Destinare i fondi di quel “piano-carceri” a strutture differenziate sarebbe già un passo verso un vero cambiamento nel segno della civiltà. Ridurre il numero dei detenuti in attesa di giudizio che pesano nel nostro Paese in percentuale molto più alta del numero degli stranieri “rimpatriabili”, sarebbe già un risultato straordinario. Assai più produttivo anche sul piano dei bilanci, tenuto conto di quanto spende ogni anno lo Stato per l’indennizzo delle ingiuste detenzioni.             

di Francesco Petrelli

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