28/07/2018
La Corte del miracolo: salva il processo e salva il diritto.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 180 2018, salva forse un processo da esiti altrimenti demolitivi, ma lascia sul campo i problemi più spinosi. La posizione dell’Unione.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 180 2018, nel decidere sulla legittimità delle astensioni dei penalisti dalla celebrazione di processi con detenuti, ha affermato che solo il legislatore (e non dunque un codice di autoregolamentazione) può intervenire in una materia che, come quella, incide sulla libertà personale dei cittadini, in questi limitati termini accogliendo la questione rimessa dal Tribunale Reggio Emilia davanti al quale si sta svolgendo (in quanto non sospeso) il cd. maxiprocesso Aemilia.     

La Corte, così facendo, salva forse il processo da esiti altrimenti demolitivi, ma lascia sul campo i problemi più spinosi. Se, infatti, il giudice delle leggi chiude in maniera ragionevole il cerchio dei rapporti fra la norma che riconosce il diritto di sciopero (art. 2 bis legge 146/1990), la norma regolamentare (il codice di autoregolamentazione del 2007) e l’art. 13 della costituzione, restano fuori del suo intervento troppi nodi irrisolti.

Se il sistema dell’autoregolamentazione dell’astensione degli avvocati nei processi con detenuti aveva, forse, bisogno di un intervento ortopedico che raddrizzasse alcune possibili deviazioni, l’intervento chirurgico della Corte sembra più volto ad esorcizzare un pericolo, che a dare una risposta definitiva al problema dei rapporti fra i diversi diritti costituzionali in campo. E, anzi, è proprio la soluzione chirurgica adottata a dimostrare come l’assetto normativo e giurisprudenziale, formatosi nell’ambito del dialogo delle Corti, di questo delicato strumento di azione politica dell’avvocatura, non potesse essere oggetto di aggressione o di manipolazione.

Resta infatti definitivamente chiarito che quello di astensione dalle udienze sia un pieno diritto dei penalisti, cui il giudice – come avevano ben ribadito le SS.UU. del 2014 – non può porre limitazioni. E resta evidente che neppure potrà il legislatore limitare, oltre quanto non facciano già le severe cadenze del nostro codice di autoregolamentazione, l’esercizio di quel diritto costituzionalmente garantito. 

Ma ciò che resta purtroppo in ombra, in questa attesa decisione, è proprio la peculiarità dei rapporti fra astensione collettiva dei penalisti ed altre analoghe legittime proteste di contenuto sindacale. La specificità delle motivazioni, che hanno sempre determinato le delibere di astensione dalle udienze dell’UCPI, è di aver sempre tutelato i diritti degli imputati e le garanzie di tutti i cittadini e non propri interessi corporativi o di categoria. Si tratta di una mancanza grave che ha condizionato di fatto la scelta della Corte.

È infatti proprio questo tratto distintivo che rende eticamente e politicamente alta la posizione di UCPI, e che, come sottolineato dal Presidente Migliucci nel suo intervento davanti alla Corte, rende bilanciabile il diritto di libertà tutelato dall’art. 13 cost. con l’interesse alla promozione e la tutela del “giusto processo”, anche con l’eventuale consapevole ed informato consenso di chi di quel proprio diritto intende disporre, consentendo il rinvio dell’attività processuale.

Ed occorre anche ricordare che i penalisti italiani hanno sempre fatto un uso assolutamente sobrio, attento e scrupoloso di questo strumento, nella consapevolezza della sua delicatissima natura e del fatto che ogni astensione in processi con detenuti incrocia ed intreccia due diritti costituzionali di altissimo valore, che assumono senso e significato solo e soltanto se l’uno serve a salvaguardare l’altro. 

Quando il giudice rimettente emiliano afferma, dunque, che interesse indeclinabile dell’imputato detenuto è quello di essere giudicato nel più breve tempo possibile, non coglie nel segno, perché l’imputato, specie quando è detenuto, ha interesse ad essere giudicato in un processo giusto, nell’ambito del quale siano rispettate le garanzie della costituzione e del giusto processo.   

Se è dunque certo che, a seguito di questa decisione, con la dichiarazione di illegittimità dell’art. 2-bis della legge 146 del 1990, non potranno prolungarsi i termini di custodia cautelare in danno del pur consenziente imputato, è anche certo che il diritto di astensione  del difensore resta un innegabile principio giuridico e di altissimo significato civile, che nessuna legge potrà comprimere nel suo corretto esercizio.

La questione appare dunque delicata perché tocca i principi, ma non per le ricadute concrete, atteso che le astensioni con detenuti costituiscono un dato statisticamente assai modesto, proprio in quanto i difensori hanno sempre informato correttamente i propri assistiti delle ragioni delle astensioni e delle relative conseguenze in termini di sacrificio della libertà, così che la tutela dei relativi diritti ne risultasse in ogni caso rispettata. Una strada, questa, che l’avvocatura penale continuerà a percorrere con convinzione.        

Sarebbe davvero grave se qualcuno pensasse, nel mondo della politica,  che sia questa la strada da seguire per limitare la forza dell’avvocatura in un momento in cui si affacciano all’orizzonte preoccupanti iniziative di riforma che investono, e rischiano di devastare, proprio il processo penale ed il sistema sostanziale, ponendo l’intera avvocatura e l’intero Paese di fronte a scelte di campo a tutela delle libertà e delle fondamentali garanzie costituzionali, che troveranno nelle astensioni un ineliminabile strumento di contrasto politico e civile.  

Roma, 28 luglio 2018

La Giunta