21/09/2017
'Vivere onestamente' e 'rispettare le leggi'

Il 5 settembre sono state depositate le motivazioni della Sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il precedente 27 aprile, che ha enunciato il principio di diritto inerente all’impossibilità dell’inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi” a integrare la fattispecie di cui al 75 codice antimafia.

L'analisi dell'Osservatorio Misure Patrimoniali UCPI

 

Il 5 settembre sono state depositate le motivazioni della Sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il precedente 27 aprile, che ha enunciato il principio di diritto inerente all’impossibilità dell’inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi” a integrare la fattispecie di cui al 75 codice antimafia.

Come noto, la questione è stata assegnata alle Sezioni Unite in seguito alla Pronuncia della Grande Camera di Strasburgo nella vicenda De Tommaso c. Italia, che ha statuito, in particolare, la violazione del principio della libertà di circolazione, tutelato dalla Convenzione EDU, per la mancanza di precisione e prevedibilità delle cosiddette prescrizioni generiche, al tempo previste dall’art. 5 della legge fondamentale sulle misure di prevenzione 1423/56, poi trasfuse nell’articolo 8 del decreto legislativo 159/2011.

 L’attesa non ha tradito le aspettative.

Ci troviamo di fronte a un Provvedimento che esprime a nostro avviso due dati essenziali:

la consapevolezza della Corte di Cassazione del proprio ruolo nel sistema multilivello, che non può ridursi all’innalzamento di argini, tantomeno allo sventolio di fazzoletti bianchi;

l’autorevolezza della decisione, derivante dalla presa di coscienza della Corte di entrare in un territorio minato, di doverlo fare senza alcun timore e, soprattutto, senza l’ansia di rileggere con atteggiamento necessariamente compromissorio un passato – quello appunto delle misure di prevenzione – estremamente condizionante dal punto di vista storico, giuridico, politico-criminale.

Il primo aspetto si coglie in modo distinto laddove la Corte scrive:

“Nel caso ora sottoposto al loro esame le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono chiamate ad una rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU e subordinata al <> (Corte cost., sentenze n. 349 e n. 348 del 2007).

Ne consegue che solo una lettura “tassativizzante” e tipizzante della fattispecie può rendere coerenza costituzionale e convenzionale alla norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, il che inevitabilmente comporta il superamento di una giurisprudenza di legittimità che, fino ad oggi, non mostra di essersi confrontata adeguatamente con tali problematiche” (pag. 15).

Il secondo dato innerva tutta la motivazione della Sentenza, che si inserisce nel solco già dissodato dalla De Tommaso con la maturità dettata dalla consapevolezza di una lunga vicenda – quella della prevenzione - giunta oramai al fine corsa.

Questo lo si comprende chiaramente laddove le Sezioni Unite       colgono in modo distinto – riportandolo in tre parti separati – il fatto che la censura proveniente dal massimo consesso di Strasburgo non riguarda i singoli punti in esame quanto – e proprio – la “cultura” prevenzionale che ha connotato la storia giuridica del nostro Paese, espressa nella legge:

“Con questa decisione i giudici di Strasburgo … hanno espresso un giudizio fortemente critico sulla “qualità” della legge n. 1423 del 1956, giudizio che, necessariamente si estende al d. lgs. N. 159 del 2011, nella misura in cui questo recepisce i contenuti fondamentali della disciplina originaria” (pag. 13);

 “Nell’offrire un giudizio complessivamente negativo sulla legge n. 1423 del 1956 …” (pag. 14);

“9. Nel giudizio complessivamente critico che la Sentenza De Tommaso ha dato alla disciplina delle misure di prevenzione personali …” (pag. 14-15).

Se è comprensibile un’esplicita, mancata adesione delle Sezioni Unite allo stigma conferito da Strasburgo al congegno prevenzionale, è percepibile comunque, nella filigrana della motivazione, un accostamento alle ragioni critiche che il tempo ha sedimentato attorno al sistema.

Riteniamo di coglierlo - ad esempio – nella parte in cui la Sentenza sembra prendere le distanze dalla storia della norma, dalla sua originaria vocazione di stampo squisitamente repressivo, vieppiù inasprita da un legislatore sempre ben disposto ad enfatizzarne gli esiti penalizzanti.

E crediamo di intravederlo laddove le Sezioni Unite trattano con freddezza l’atteggiamento complessivo tenuto negli anni dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale:

la prima, quando ha dato il via libera alla possibilità del concorso formale tra i reati comuni commessi dal sorvegliato speciale e quello proprio, attraverso una rilettura penalizzante dei beni giuridici ritenuti compromessi, ovvero nelle ipotesi in cui la violazione riguardava un obbligo sanzionato solo in via amministrativa, o improcedibile per difetto di querela, o inoffensivo;

la seconda in tutti i casi in cui ha “salvato” la norma dalle numerose censure di indeterminatezza promosse.

Con l’eccezione dell’ordinanza della Consulta 354/2003, che precisò come le prescrizioni di genere non potessero essere qualificate quali obblighi penalmente sanzionati, e delle Sezioni Unite Sinigaglia del 2014, che attraverso il recupero del principio di offensività ha tentato di temperare gli assurdi e ingiustificati esiti applicativi della norma.

Sul volano di una ricostruzione impeccabile per completezza e nitore, la chiusura si eleva al piano dei principi fondativi del sistema penale, collegandoli tra loro in modo dialogico:

“Le norme penali sono norme precettive, in quanto funzionali ad influire sul comportamento dei destinatari, ma tale carattere difetta alle prescrizioni di ‘vivere onestamente e rispettare le leggi’, perché il loro contenuto, amplissimo e indefinito, non è in grado di orientare il comportamento sociale richiesto. L’indeterminatezza delle due prescrizioni in esame è tale che impedisce la stessa conoscibilità del precetto in primo luogo da parte del destinatario e poi dal giudice. Autorevole dottrina, proprio con riferimento al rapporto determinatezza-conoscibilità, ha osservato che qualora una sanzione penale venisse applicata in mancanza della possibilità di conoscere la norma precettiva, a causa della sua indeterminatezza, si avrebbe una situazione in cui <>.

In sostanza, il rapporto che lega la determinatezza della norma penale alla sua prevedibilità e conoscibilità finisce per influire sulla sussistenza  stessa della colpevolezza, intesa come possibilità del destinatario di <>. Il difetto di precettività insito nel generico obbligo di rispettare le leggi, che vale per ogni consociato, impedisce alla norma in questione di influire sul comportamento del destinatario, in quanto non sono individuate quelle condotte socialmente dannose, che devono essere evitate, e non sono prescritte quelle socialmente utili, che devono essere perseguite. In questa situazione di incertezza il sorvegliato speciale non è in condizione di conoscere e prevedere le conseguenze della violazione di una prescrizione che si presenta in termini così generali. D’altra parte, in presenza di un precetto indefinito l’ordinamento penale non può neppure pretenderne l’osservanza. Ne consegue che il delitto in esame è integrato solo ed esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche, che hanno autonomo contenuto precettivo.” (pagg. 16-17).

 Sarebbe davvero un peccato che questa congiuntura tanto felice quanto inaspettata non venisse colta dal Legislatore, dalla Dottrina e dalla Giurisprudenza per chiudere i conti con una delle stagioni più cupe della nostra storia politica, giuridica e giudiziaria.

Roma, 21 settembre 2017

L'Osservatorio Misure Patrimoniali UCPI

 

          

 

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