20/07/2016
Sulle riforme si vuole fare in fretta, non fare bene

Sulle riforme del processo penale vediamo una politica incapace di governare le pulsioni contrastanti che caratterizzano il processo penale, sensibile solo ai progetti che rendono in termini di consenso, un sistema perverso nel quale le riforme del processo penale non sono affatto un “mezzo” per migliorare l’amministrazione della giustizia, ma solo un “fine”, un agognato traguardo, una preda di cui vantarsi a prescindere dalla efficacia o meno della riforma. Rassicurare in ordine al fatto che né la legge sulla tortura, né la legge sulla prescrizione subiranno “slittamenti” significa mettere assieme, con una logica che deforma impunemente la realtà, una riforma che l’Italia deve al mondo civile da oltre trent’anni, con una “legge truffa” che renderà i processi ancora più lunghi e la giustizia penale sempre più ingiusta.

Due anni fa, più o meno in questo periodo, vedeva la luce il DDL che avrebbe dovuto potenziare le garanzie nel processo penale e ripristinarne l’efficienza. Ci è subito sembrato che le riforme processuali non intensificassero affatto le garanzie difensive, che le modifiche dei riti speciali ne deprimessero la potenzialità deflattiva, che molti interventi sul rito aumentassero i poteri del giudice e sbilanciassero l’equilibrio fra accusa e difesa. Ci è inoltre sembrato rispondente al solito banale populismo penale l’iniquo, indiscriminato innalzamento delle pene per reati selezionati esclusivamente con la sonda dell’immaginario collettivo. Riteniamo che, anche con il nostro contributo critico, molte storture sono state riviste, alcune irrazionalità ridimensionate, alcuni istituti francamente abnormi – come la richiesta di pena a seguito di confessione – messi da parte. Tuttavia, la critica originaria formulata al DDL, quella di non mostrare alcuna idea complessiva del processo penale, della centralità del valore del contraddittorio e della necessità di un suo recupero, non solo non è stata in alcun modo smentita, ma è stata, al contrario, confermata dall’emendamento governativo con il quale si è inteso introdurre una estensione irrazionale del processo a distanza. Come possa, infatti, convivere una simile riforma, contraria ai principi costituzionali e convenzionali, con la dichiarata volontà di rafforzamento delle garanzie del giusto processo, non è dato comprendere. Evidente, piuttosto, il ruolo avuto nella elaborazione di questo emendamento, dalla Commissione governativa presieduta dal dott. Gratteri. Evidente, ancora, il ruolo della magistratura, associata e non, nel parossistico rilievo che la riforma della prescrizione ha assunto nell’ambito delle vicende parlamentari del DDL e nella sua progressiva estremizzazione, come se questa riforma fosse la panacea di ogni male e di ogni disfunzione del processo. Così fino all’emendamento del dott. Casson che immagina la fatidica interruzione del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo  grado. Sarebbe necessario riprendere le fila di quella occasione di riforma mancata, ma vediamo, invece, una politica indebolita dalla assenza di ideologie, dalla mancanza di solide strutture concettuali, del tutto incapace di elaborare autonomi progetti di riforma sostenuti da una solida visione valoriale, ed incapace, in particolare, di governare le pulsioni contrastanti che caratterizzano la costruzione prima, e la vita poi, dei sistemi penali. Vediamo una politica sensibile solo ai progetti a breve termine, che rendano subito in termini di consenso. Un sistema perverso nel quale le riforme del processo penale non sono affatto un “mezzo” per migliorare l’amministrazione della giustizia, ma solo un “fine”: un agognato traguardo, una preda di cui vantarsi a prescindere dalla efficacia o meno della riforma. Indifferenti al bene della collettività. Nell’attuale contesto di incertezze, la politica vede dunque le sue scelte inevitabilmente condizionate dall’ondeggiare emotivo dell’opinione pubblica e dall’apparato tecnico della magistratura. Denunciamo da tempo con preoccupazione come questo apparato, inteso in senso esteso, con i suoi antichi e nuovi strumenti (il CSM con i suoi pareri urbi et orbi, i magistrati insediati ovunque negli uffici legislativi dei Ministeri, le Procure con i loro protocolli onnivori, l’ANM con i suoi attacchi alla politica e le sue richieste di adeguamento)  condizioni direttamente quei “fini”, imponendoli alla politica, sostituendosi alla politica. Leggiamo che ANM, con il plauso del Ministro di Giustizia, avrebbe di recente organizzato più di una dozzina di “commissioni” pronte a sfornare progetti di riforma, suggerimenti ready-made, pronti già ad essere recepiti dal Legislatore. Cova sotto simili pretese, e sotto la favorevole incauta apertura della politica a simili iniziative, una deplorevole e obsoleta idea proprietaria della giustizia, come fosse una cosa che riguardi non la collettività, ma solo la magistratura. Unico organo competente a cucinare le leggi e i suoi condimenti. Ad elaborare le alchimie del processo di cui sola conosce i vizi e le virtù. L’unica che sappia come raddrizzarla e dove condurla. Basta che resti nel suo incontrastato dominio. Vale anche per la prescrizione questo delirio autocratico, risultando evidente come quella ipotizzata sia una prescrizione che consenta ai magistrati di governare i tempi del processo, al di fuori di ogni possibile controllo e di ogni limite ragionevole, dall’iscrizione alla sentenza definitiva, senza lacci e lacciuoli. Vorremmo sapere dal Ministro se davvero intende assecondare questa deriva istituzionale. Ci si sarebbe potuti dedicare con serietà ed impegno al miglioramento del DDL, all’effettivo rafforzamento delle garanzie (al di là del semplice proclama), al potenziamento del contraddittorio ed alla riqualificazione del dibattimento, con la tutela dei principi convenzionali e costituzionali dell’immediatezza e dell’oralità, riqualificare e potenziare la legge delega sulle intercettazioni, alla luce dell’inquietante irruzione dell’utilizzo dei c.d. Trojan, e della giurisprudenza che ne asseconda l’ubiquità)  se non si fosse invece inteso cavalcare il flusso del pensiero dominante secondo il quale la prescrizione diveniva l’unica arma palingenetica da coltivare, il fine ultimo di una battaglia culturale falsificatrice, mediaticamente imposta dai vertici di ANM, sebbene molte voci anche in seno alla magistratura avessero colto i rischi evidenti che una simile riforma inocula nel sistema. Ci eravamo illusi che i sobri interventi del Governo sui rapporti fra politica e magistratura e le reiterate, generose e lucide esternazioni del Ministro della Giustizia in ordine alla incidenza della organizzazione  degli uffici giudiziari sulla durata dei processi e sulla prescrizione, potessero e dovessero necessariamente imprimere una diversa direzione nei modi di affrontare il problema, aprendo ad una differente modalità di interlocuzione con l’avvocatura, rendendo tutti consapevoli che debba soprattutto investirsi nella riorganizzazione della macchina giudiziaria e non su regole che, aumentando le pene in violazione del principio di proporzione e di sussidiarietà ed allungando la prescrizione, finiscono con l’allungare a dismisura, irrazionalmente ed irragionevolmente, i tempi del processo, e con allontanare la pena eventuale dal fatto, proprio con riferimento a quei reati che la collettività avrebbe diritto a veder accertati nei tempi più brevi. È quel che si sta facendo con i reati di corruzione, che proprio per questi motivi dovrebbero essere oggetto di una rapida definizione processuale, operando un incongruo ulteriore aumento delle pene massime, con il conseguente allungamento del termine di prescrizione. Anche a tali reati si applicherebbe, evidentemente, la sospensione nelle fasi dell’appello e del ricorso per cassazione per un totale di tre anni (diversamente dislocati nelle ipotesi alternative oggetto della discussione: 18 mesi + 18 mesi; 1 anno e 2 anni, ovvero 2 anni ed 1 anno), con un allungamento evidente dei tempi di celebrazione di simili processi. Il contrario di quanto una democrazia moderna dovrebbe fare, per restituire credibilità all’azione della magistratura. Si dimentica spesso, infatti, che non sono solo i tempi della giustizia civile, come ampiamente dimostrato, ma anche i ritardi e le inefficienze del processo penale a disincentivare gli investimenti ed a deprimere l’economia. Ma la demagogia divora evidentemente il buon senso e le statistiche (secondo le quali il 70 % e più dei processi si prescrive nella fase delle indagini preliminari) ed obnubila anche la più chiara evidenza scientifica la quale dimostra che allungare i tempi della prescrizione non fa altro che spostare nel tempo questo fenomeno, aggiungendo danni ulteriori ai danni prodotti da un processo già iniquo e destinato a divenire ancor più inumano e contrario alle più recenti direttive europee (come si prospetta – attraverso la modifica dell’art. 134 bis att. – allorché si tratti indistintamente di imputati detenuti). Trapela una medesima indifferenza ai reali snodi  del processo, ed una analoga ansia di fare “in fretta” piuttosto che di “fare bene”, anche la superficialità con la quale si sono accantonati i tentativi di inserire, nell’ambito della riforma della prescrizione, strumenti “acceleratori” tali da consentire un recupero del tempo concesso laddove l’appello e il ricorso non venissero celebrati nei più lunghi tempi concessi. Anche simili rifiuti appaiono difatti il segno evidente che non si intende seguire la strada del recupero dell’efficienza ma solo operare un assurdo allungamento del processo, in evidente contrasto con il principio costituzionale della “ragionevole durata”. Poiché il Ministro ha dimostrato di avere competenza anche in ordine alle vere cause del disastro, smentisca l’assunto, metta da parte una riforma insensata e riformi il processo come pretende una moderna democrazia, facendo di testa sua e non assecondando i diktat delle dieci, cento, mille commissioni del dott. Davigo. Speriamo solo che su una legge di riforma così controversa, che attiene a punti nevralgici del processo e che rischia pertanto di stravolgerne in maniera definitiva, ed in senso decisamente ed evidentemente incostituzionale, in quanto violativa dell’art. 111 Cost., venga discussa dal Parlamento al fine di consentire, così come dovrebbe sempre essere per le riforme del processo penale, la più ampia valutazione da parte di tutte le forze politiche. Rassicurare in ordine al fatto che né la legge sulla tortura, né la legge sulla prescrizione subiranno “slittamenti” significa mettere assieme, con una logica che deforma impunemente la realtà, una riforma che l’Italia deve al mondo civile da oltre trent’anni, con una “legge truffa” che renderà i processi ancora più lunghi e la giustizia penale sempre più ingiusta. Che ciascuno si affretti a tornare a fare il proprio dovere. Noi sapremo fare il nostro. 

Roma, 20 luglio 2016

La Giunta

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