24/05/2014
La proposta di direttiva sulla presunzione di innocenza: una delusione!

L’approccio al tema della presunzione di innocenza appare condizionato da una visione del processo sbilanciata sul versante dell’efficienza a detrimento delle garanzie. Le eccezioni alla presunzione di innocenza e al diritto al silenzio rischiano, inoltre, di condurre ad un abbassamento delle garanzie interne.
Si ringrazia l'avv. prof. Oliviero Mazza, componente dell'Osservatorio Europa, per il contibuto, Carmela Parziale, componente della Giunta, e Eleonora Sartori, componente dell’Osservatorio, per la collaborazione.

Una deludente proposta in tema di presunzione d’innocenza

1. Non può che essere salutata positivamente la scelta dell’Unione europea di proporre un pacchetto di direttive volte a rafforzare i diritti processuali dell’imputato. Al tempo stesso, non può però dimenticarsi il grave ritardo di queste iniziative e, più in generale, lo scarso interesse finora mostrato dalle istituzioni europee per l’armonizzazione degli ordinamenti processuali penali degli Stati membri.
Se si vuole davvero comprendere la portata di questo new deal processual-garantista, al centro del quale si colloca, come è ovvio, la proposta di direttiva sulla presunzione d’innocenza e sul diritto a presenziare al processo, occorre anche ricordare quale sia stato sinora l’approccio alla tematica processuale penale che ha guidato le scelte dell’Unione europea.
La legislazione europea mostra una visione angusta (e distorta) del processo penale inteso quale strumento di difesa sociale, una barriera da ergere a fronte della minaccia rappresentata da gravi forme di criminalità organizzata e transnazionale, compreso il terrorismo. Non è mai stata seriamente coltivata l’idea, forse utopica, di un giusto processo penale comune e anche il meno ambizioso proposito dell’armonizzazione delle legislazioni processuali interne ha segnato per lungo tempo il passo, soffocato dallo straordinario successo che ha riscosso il principio del mutuo riconoscimento.
L’Europa ha così dimostrato di non essere politicamente in grado di imporre ai singoli Stati una legislazione processuale penale comune, o anche solo omogenea, che favorisca e semplifichi la cooperazione giudiziaria storicamente rientrante nelle specifiche competenze comunitarie (terzo pilastro). Preso atto di questa situazione, nella tradizione della realpolitik e con buona dose di pragmatismo, il Consiglio europeo di Cardiff del 1998 ha escogitato una soluzione tanto ingegnosa quanto fortunata nei suoi successivi sviluppi: fondare la cooperazione giudiziaria sul principio del mutuo riconoscimento.
Questo principio è diventato nel tempo l’architrave dell’intero sistema europeo di cooperazione giudiziaria e la sua anomala forza risiede nella capacità di ottimizzare i risultati con il minimo sforzo: volendo usare uno slogan, si potrebbe dire che vincola, ma non impegna a mutare la legislazione interna. Gli Stati aderenti all’Unione hanno sistemi giudiziari eterogenei che non sono perciò in grado di trattare singole questioni in modo uguale e a volte nemmeno simile. Per far sì che le decisioni assunte in uno Stato possano essere accettate da altri Stati membri come equivalenti a quelle interne, si ricorre all’idea della fiducia reciproca. L’esistenza di un rapporto fiduciario fra gli Stati funge da schermo per occultare le indubbie diversità e da collante per indurre il reciproco riconoscimento che, secondo il programma dell’Aja del 2004, investe le «decisioni giudiziarie prese in tutte le fasi dei procedimenti penali o ad essi altrimenti pertinenti, quali la raccolta e l’ammissibilità dei mezzi di prova, i conflitti di giurisdizione, il principio del ne bis in idem e l’esecuzione delle sentenze definitive di detenzione o altre sanzioni (alternative)».
Il principio del mutuo riconoscimento produce due fondamentali risultati a costo zero dal punto di vista dell’impegno nell’edificazione di un diritto processuale penale comune. Il primo è costringere tutti gli Stati a cooperare fra loro senza possibilità di obiettare alcunché in ordine alle modalità con cui vengono trattate le singole questioni dal proprio partner fiduciario; il secondo, ma non meno rilevante, riguarda lo spostamento dell’asse della cooperazione dai tradizionali rapporti politico-diplomatici a un livello semplicemente giudiziario. Del resto, se ci si fida l’uno dell’altro non ha senso un filtro politico ed è opportuno lasciare dialogare direttamente le autorità procedenti.
A dire il vero, nelle intenzioni iniziali il principio del reciproco riconoscimento avrebbe dovuto procedere di pari passo con un certo grado di armonizzazione delle legislazioni nazionali, sia sostanziali sia processuali. La fiducia reciproca non è infatti un dogma assoluto, ma andrebbe coltivata sulla base di un’integrazione normativa almeno minimale.
In realtà, l’insperata efficacia del mutuo riconoscimento ha finito per travolgere ogni tentativo di ravvicinamento degli ordinamenti interni. Testimonianza eloquente di questo trend è l’ordine di priorità dato alla produzione normativa in materia: si è deciso di adottare, ad esempio, le decisioni quadro sul mandato di arresto europeo (2002/584/GAI), sull’esecuzione dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio (2003/577/GAI), sulla confisca di beni, strumenti e proventi di reato (2005/212/GAI), sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie (2005/214/GAI), sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca (2006/783/GAI), sul reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza, delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive (2008/947/GAI), sul reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale (2008/909/GAI), sulla considerazione delle decisioni di condanna tra Stati membri dell’Unione europea in occasione di un nuovo procedimento penale (2008/675/GAI), sul mandato europeo di ricerca delle prove diretto all’acquisizione di oggetti, documenti e dati da utilizzare nei procedimenti penali (2008/978/GAI), sull’applicazione tra gli Stati membri dell’Unione europea del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare (2009/829/GAI), tutte ispirate, appunto, al principio del mutuo riconoscimento, mentre la decisione quadro sul rispetto dei diritti processuali dell’imputato, volta a introdurre regole di garanzia comuni, è rimasta arenata allo stadio di proposta. Di fatto, l’armonizzazione in ambito processuale si è manifestata solo con la decisione quadro relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale (2001/220/GAI) e non è casuale che sia stata scelta proprio la prospettiva vittimologica notoriamente contrapposta alle garanzie dell’imputato.
In altri termini, ci si è resi conto che, se a livello teorico il reciproco riconoscimento postula l’armonizzazione, in pratica tale principio si presta a essere impiegato in modo altrettanto efficace come succedaneo dell’armonizzazione stessa, sterilizzando il problema delle diversità esistenti fra i singoli ordinamenti degli Stati membri.
Lo spazio comune processuale penale si è così venuto a sviluppare in funzione del miglioramento della cooperazione giudiziaria in chiave repressiva e preventiva, o meglio nell’ottica dell’efficienza disgiunta dall’interesse per una legislazione garantista omogenea.
Solo alcuni anni dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona si sono registrati i primi segnali di un cambiamento dell’indirizzo politico culminati nell’adozione delle direttive sul diritto alla traduzione, sul diritto all’informazione, sul diritto di difesa nel procedimento di esecuzione del mandato d’arresto europeo e oggi consolidati dal pacchetto di proposte di direttive sulla presunzione d’innocenza [COM (2013)821], sul diritti procedurali dei minori indagati o imputati [COM (2013)822], sull’accesso al gratuito patrocinio [COM (2013)824].
Va solo segnalato che recentissimamente anche la solidità del mutuo riconoscimento ha mostrato le prime crepe e forse questo dato avrà il suo peso sulla rinnovata attenzione per l’armonizzazione: proprio il nostro Paese, a causa della condanna per violazione dell’art. 3 Cedu nel caso Torreggiani, ha infatti subito il diniego di esecuzione dei mandati d’arresto da parte del Regno Unito, dimostrando come la fiducia reciproca presupponga la certezza di sistemi giudiziari e penali capaci di rispettare effettivamente i diritti fondamentali.

2. L’Unione europea ha finalmente deciso di sollevare il tappeto del mutuo riconoscimento, sotto al quale è stata per troppo tempo nascosta la polvere delle discipline processuali disarmoniche, per procedere spedita verso l’effettiva attuazione del diritto a un processo equo di matrice europea.
Nel quadro di questa operazione, indubbiamente meritoria, va inscritta anche la proposta di direttiva in tema di presunzione d’innocenza al cui riguardo si possono formulare subito due considerazioni.
La prima, preoccupante, è che l’esigenza di dettare regole minime comuni in tema di presunzione d’innocenza si giustifica razionalmente solo in base alla presa d’atto che in alcuni ordinamenti il principio cardine del processo penale non è pienamente attuato, in spregio all’art. 6 comma 2 Cedu e alla interpretazione di tale disposizione fornita dalla giurisprudenza di Strasburgo. Con questi ordinamenti anche il nostro si confronta quotidianamente nell’ambito della dovuta cooperazione giudiziaria.
La seconda è che l’approccio dell’Unione a tematiche così rilevanti appare ancora timido, condizionato da una visione del processo sbilanciata sul versante dell’efficienza a detrimento delle garanzie. Esempio emblematico di questo self restraint è la scelta di non tutelare la presunzione d’innocenza delle persone giuridiche imputate (art. 2) per mantenere e rispettare «l’approccio graduale dell’intervento legislativo dell’Unione» (Relazione, p. 6). Perché mai sarebbe necessario procedere per gradi nel pieno riconoscimento della presunzione d’innocenza a qualunque imputato, essere umano o persona giuridica che sia? Perché si afferma che «i livelli e le esigenze di tutela del diritto alla presunzione di innocenza sono diversi a seconda che si tratti di persone fisiche o giuridiche» (Relazione, p. 6)? Non sarebbe stato invece preferibile superare le contestabili affermazioni espresse dalla Corte di giustizia con riferimento al diritto a non autoaccusarsi?
Venendo all’esame del merito della proposta, e con i limiti di un commento a prima lettura, si deve segnalare, anzitutto, come la presunzione d’innocenza sia stata riconosciuta dall’avvio del procedimento, a prescindere dalla conoscenza dello stesso in capo all’indagato, e fino a quando non sia stata legalmente accertata la colpevolezza (art. 3). Con quest’ultimo riferimento risultano incluse tutte le diverse scelte ordinamentali, compresa quella di far cessare la presunzione d’innocenza dopo la condanna di primo grado. A dispetto di quanto affermato dalla relazione illustrativa della proposta, anche una condanna non definitiva integra il paradigma del legale accertamento di responsabilità. Ovviamente tale previsione non sarà invocabile per ridurre le maggiori garanzie interne, come nel caso dell’art. 27 comma 2 Cost. che estende la presunzione costituzionale di non colpevolezza fino al giudicato di condanna.
Va segnalato che l’art. 3 sembra non coincidere con l’art. 4 laddove il trattamento mediatico dell’imputato alla stregua di un presunto innocente è esteso fino alla condanna definitiva. Appare evidente la mancanza di coordinamento frutto di una scadente tecnica normativa, a meno di non voler ritenere che la presunzione mediatica sia più estesa di quella strettamente processuale.
Molto apprezzabile è la scelta di recepire la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di “conferenze stampa”, vietando espressamente a tutti i funzionari pubblici di “presentare” un imputato come colpevole del reato ascrittogli prima della condanna definitiva (art. 4).
Si tratta di un principio fondamentale di civiltà giuridica per la cui attuazione il legislatore nazionale dovrà prevedere norme ad hoc, magari anche di natura penale, sebbene il vero recepimento della regola avverrà solo attraverso un radicale cambiamento dei costumi giudiziari. Resta purtroppo fuori dalla portata della direttiva il comportamento dei media che molto spesso arrecano più danni alla presunzione d’innocenza di quanto non possano fare i pubblici dipendenti.
L’art. 5 stabilisce che l’onere della prova incomba alla pubblica accusa, salvi i poteri del giudice di intervenire d’ufficio nell’ammissione e nell’acquisizione delle prove. La direttiva è volutamente ambigua sul punto, non chiarendo esattamente i limiti entro cui tali poteri eccezionali di intervento del giudice siano compatibili con il principio. Sarebbe stata auspicabile una presa di posizione più coraggiosa, magari volta a escludere poteri suppletivi in favore di una mera integrazione contenuta nei temi di prova tracciati dal pubblico ministero o dalla difesa. Ma non si può nascondere che ogni intervento probatorio d’ufficio del giudice, per un verso, fa venir meno il concetto stesso di onere della prova legato alla soccombenza di chi non vi adempie e, per altro verso, mina irrimediabilmente il diverso principio di imparzialità del giudice e di neutralità della sua funzione.
Ancor peggio il comma 2 dell’art. 5 che legittima l’inversione dell’onere della prova, sia pure accompagnato dalla farisaica affermazione che «gli Stati membri provvedono affinché la presunzione che comporti l’inversione dell’onere della prova a carico dell’indagato o imputato sia sufficientemente forte da giustificare la deroga a tale principio, e sia confutabile». Al di là della non chiarissima prosa, si legittima la presunzione di colpevolezza, sia pure relativa. Si tratta di una previsione che in un sistema seriamente improntato alla presunzione di innocenza non dovrebbe avere diritto di cittadinanza. La sua portata, sia pure fondata su alcune criticabili pronunce della Corte di Strasburgo, è dirompente e paradossale: in una direttiva sulla presunzione d’innocenza si ammette l’opposta presunzione di colpevolezza!
In chiusura dell’art. 5 viene poi riaffermata la regola di giudizio per cui la colpevolezza deve essere dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma alla luce dei commi che precedono il significato di questa scontata previsione è quasi beffardo.
Il diritto di autodifesa passiva è scisso negli art. 6 e 7 sotto forma, da un lato, di diritto di non incriminarsi e di non cooperare, e dall’altro, di diritto al silenzio.
Se sul piano teorico la scelta appare apprezzabile, quando poi si valuta la portata concreta dei diritti attribuiti all’imputato non si può non registrare, ancora una volta, un eccesso di “timidezza” e un appiattimento su alcune decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo che non possono certo essere considerate esempi di garantismo.
Il diritto a non confessarsi colpevole e non fornire prove in proprio danno è presidiato dall’inammissibilità del materiale probatorio ottenuto in violazione dello stesso, salvo però il caso in cui l’uso di tali elementi di prova non pregiudichi l’equità del processo nel suo complesso (art. 6 comma 4).
L’eccezione è tale da vanificare in concreto il diritto, facendo riferimento a un concetto vago e discrezionalmente interpretabile qual è quello dell’equità complessiva del processo. Inutile sottolineare come in tale delicata materia, se si vogliono realmente garantire i diritti dell’imputato, le scelte devono essere nette e non ammettere deroghe di sorta.
Va poi notato come la direttiva faccia riferimento alla facoltà di non autoincriminarsi che, nella giurisprudenza europea, viene descritta quale facoltà di non confessarsi colpevole. In realtà, la facoltà di non autoincriminarsi, a stretto rigore, ha una portata molto più ampia, comprendendo il diritto di ogni cittadino di non fornire elementi che possano portare alla sua incriminazione, intesa come apertura di un procedimento a suo carico. Detto altrimenti, un diritto da riconoscere anche ai non indagati o indiziati volto proprio a scongiurare il rischio dell’apertura del procedimento penale. Non sembra, tuttavia, che sia questa l’accezione della facoltà di non autoincriminarsi accolta dalla direttiva che evidentemente non ha colto l’occasione per ampliare la portata applicativa della facoltà in questione.
Anche il diritto al silenzio (art. 7) subisce un trattamento analogo: è riconosciuto dinanzi all’autorità giudiziaria, alla polizia e ad altre non meglio specificate autorità di contrasto, è previsto il diritto all’avvertimento circa la facoltà di non rispondere, accompagnato però da un poco comprensibile avvertimento circa le conseguenze del silenzio e addirittura della rinuncia allo stesso (premi per la collaborazione?), è stabilita l’inammissibilità delle prove ottenute in violazione del diritto al silenzio, salvo prevedere, infine, la possibilità di un loro utilizzo processuale qualora ciò non pregiudichi l’equità del procedimento nel suo complesso. Superfluo ribadire che quest’ultima clausola di salvezza potrebbe pregiudicare in radice l’effettività di un diritto fondamentale che dovrebbe essere sempre e comunque involabile.
A fianco della presunzione d’innocenza, la direttiva garantisce anche il diritto dell’imputato a presenziare al suo processo (art. 8). Non si esclude in radice la possibilità di procedere in assenza dell’accusato purché quest’ultimo sia stato informato del processo, della possibilità di essere giudicato in assenza e, almeno implicitamente, abbia rinunciato a comparire o abbia nominato un difensore che effettivamente abbia svolto il patrocinio in giudizio. Si tratta dei principi della giurisprudenza europea ai quali recentemente il nostro Paese si è adeguato con la l. n. 67 del 2014.
La novità è rappresentata dal comma 3 dell’art. 8 che consente all’imputato che non fosse stato informato del processo in assenza di accettare successivamente la decisione, rinunciando al diritto a un nuovo processo e rendendola così eseguibile.
L’art. 9 stabilisce che l’imputato processato a sua insaputa ha diritto a un nuovo processo “di merito” che possa condurre alla riforma della decisione originaria.
Infine, gli Stati membri dovranno garantire ricorsi interni effettivi in caso di violazione dei diritti stabiliti dalla direttiva (art. 10).
Nulla si dice in ordine alla presunzione d’innocenza come regola di trattamento, sub specie di rispetto della libertà personale dell’imputato nel corso del processo. Si tratta di una grave lacuna che merita di essere stigmatizzata.
Volendo fornire una valutazione complessiva della proposta di direttiva, l’aggettivo più appropriato è deludente. La proposta si appiattisce sui ben noti principi della giurisprudenza di Strasburgo, compresi quelli espressi dagli arresti più controversi, non introduce significativi elementi di novità e finisce per consolidare quelle eccezioni alla presunzione d’innocenza e al diritto al silenzio che potrebbero, nel tempo, condurre a un abbassamento delle ben più elevate garanzie interne. Se, infatti, l’art. 12 sancisce la classica clausola di non regressione, non dobbiamo farci illusioni sulla possibilità di scongiurare il pericoloso fenomeno, più culturale che strettamente giuridico, di emulazione. Non possiamo cioè escludere che anche il nostro legislatore e più facilmente la giurisprudenza interna creativa rimangano irrimediabilmente affascinati dall’idea di fondo della direttiva per cui, in una prospettiva efficientistica, va garantita l’equità complessiva del processo piuttosto che la sacralità dei singoli diritti inviolabili, aprendo così a pericolose valutazioni discrezionali sulla concreta effettività delle garanzie.

 DOWNLOAD