John Rawls e la separazione delle carriere - di Francesco Petrelli - aprile 2015

di Francesco Petrelli


Non tutti lo conoscono ma John Rawls è considerato il più grande filosofo del diritto vivente. Nel suo lavoro più famoso “Una teoria della giustizia” (1971) Rawls espone l’idea secondo la quale per conseguire un effettivo risultato di giustizia occorrerebbe prendere le relative decisioni collocandosi in una posizione di assoluta neutralità, calando sulla propria mente un “velo di ignoranza”. Ma come sarà possibile realizzare una simile improbabile condizione? Ed in che cosa ci sarà di aiuto deliberare in tale poco plausibile condizione di cecità? Per quanto risulti difficile questa operazione, secondo il filosofo, solo spogliandosi della propria condizione personale, professionale, economica e sociale, e ponendosi in questo modo in una posizione di neutralità intellettuale, sarà possibile operare scelte riconducibili a un principio di giustizia.
Il “velo di ignoranza”, determinato da tale straniamento, ci impedirà infatti di conoscere quale sarà la nostra posizione personale all’interno del contesto rispetto al quale saremo chiamati a deliberare le nostre scelte politiche, costringendoci a decidere senza sapere se in quel contesto sociale o relazionale saremo i debitori o i creditori, gli amministratori o gli amministrati, i detentori del potere o gli emarginati. Se ignorerò, infatti, quale sarà nella società il mio posto, se sarò povero o ricco, se sarò detentore di mezzi di produzione o del tutto privo di capacità reddituale, potrò esercitare i miei criteri di giustizia con maggiore equidistanza e cercherò di realizzare quella formula che impedirà, qualunque sarà il mio destino, di essere vittima di un sistema iniquo. Quando si tratterà infine di organizzare i rapporti fra giudice e parti nel processo, dovremo dunque necessariamente collocarci nella posizione di colui che non sa se nel processo sarà il giudice, il pubblico ministero o l’imputato e dovremo scegliere, posti in quella posizione di indotta ignoranza, non condizionata dal pregiudizio che deriva dall’interpretare l’uno o l’altro dei ruoli processuali, che tipo di giudice vorremmo, amministratore di quale giustizia, che tipo di pubblico ministero, dotato di quali poteri, e che tipo di imputato, armato di quali garanzie.
La questione non risulta indifferente, sia se si dovesse assumere il ruolo di giudice, sia quello di pubblico ministero o di imputato. Perché da imputato vorrei certamente un giudice imparziale, e un pubblico ministero dotato delle mie stesse armi, ma da pubblico ministero vorrei avere strumenti superiori a quelli dell’imputato, necessari a superare l’ostacolo costituito dalle sue garanzie e dotati dell’efficienza necessaria a dimostrare la sua colpevolezza. E da pubblico ministero desidererei un giudice certamente imparziale, ma proprio per questo non ostile all’accusa e consapevole della necessità di garantire in ogni caso l’efficacia della mia attività di contrasto al crimine. Da giudice, invece, vorrei avere poteri superiori a quelli delle parti, non essere costretto a vedere limitato lo spazio della mia cognizione. Desidererei interpretare la legge secondo il mio istinto e valutare le prove secondo la mia coscienza e la mia intuizione, senza dover essere guidato da regole probatorie e impedito da restrizioni.
Per operare una scelta giusta in una tanto delicata materia dovrei dunque spogliarmi di ciascuna di queste posizioni e delle convinzioni che ad esse appartengono e, non potendo sapere se nel processo immaginario che mi devo configurare sarò il giudice, l’accusato o l’accusatore, dovrò scegliere la regola più giusta che sarà certamente quella che potrà valorizzare le qualità, potenziare le funzioni e tutelare le posizioni di ogni singolo soggetto processuale. Tale sarà la regola che senza danneggiare la funzione del giudice e l’efficienza dell’accusa, sarà comunque capace di tutelare la posizione dell’accusato, che nel processo è senz’altro la parte più debole. E per l’imputato si dovrà dunque apprestare un giudice non solo imparziale, ovvero indifferente all’oggetto del giudizio, ma anche terzo, ovvero sicuramente equidistante da entrambe le parti del processo. E dunque, per essere tale, certamente estraneo tanto al desiderio dell’imputato di essere assolto, quanto al desiderio dell’accusatore di ottenerne la condanna.
La stessa metafora della “torta” utilizzata da Rawls al fine di esemplificare il significato della sua teoria ci offre una ulteriore convincente dimostrazione di come i soggetti responsabili di determinate attività processuali debbano essere strutturalmente separati. Applicando esemplarmente la sua teoria alla distribuzione delle porzioni di una torta, Rawls afferma che, al fine di evitare ingiustizie, chi taglia le fette deve essere necessariamente un soggetto diverso da colui che le distribuisce. In questo modo chi taglia dovrà necessariamente attenersi ad un criterio di equità e di giustizia, non sapendo a chi le porzioni saranno distribuite.
Restando alla metafora sarà dunque necessario che chi taglia le fette e chi le distribuisce non siano mossi da un medesimo intento, ma lavorino in assoluta autonomia, perseguendo ciascuno un proprio fine differente. Non è qui, dunque, a ben vedere in discussione il problema ingenuo dell’eventuale amicizia o frequentazione fra pubblico ministero e giudice. Il problema si colloca sul più alto e differente livello della collocazione istituzionale dei due diversi attori pubblici del processo al fine di ottenere l’ineludibile risultato di giustizia, in quanto solo un giudice collocato in una posizione di terzietà e di alterità di obbiettivi rispetto ad entrambe le parti processuali rende possibile quel risultato.
Ma se questo è un obbiettivo che trova nella logica dei fatti un evidente fondamento, allora la terzietà non potrà che essere perseguita attraverso una separazione degli ambiti ordinamentali, organizzativi e disciplinari cui appartengono il giudice e l’accusato. Perché solo attraverso tale separazione sarà preservata quella condizione essenziale che i pensatori dell’illuminismo, cultori della separazione dei poteri, chiamavano “inimicizia”, ovvero quel sentimento che fa sì che un potere controlli l’altro, e che il titolare di un potere, non essendo mosso da alcun sentimento di “amicizia” ordinamentale nei confronti di un altro soggetto, possa sempre diffidarne, verificandone i metodi, falsificandone i risultati, non condividendone mai né gli scopi, né le passioni.
Questo pensiero filosofico ci consegna dunque un modello concettuale che, applicato in concreto alla individuazione delle giuste prerogative dei soggetti che agiscono all’interno del processo penale, finisce con il confermare l’idea che un giudice terzo è una vera e propria condizione di giustizia, capace di garantire l’equilibrata suddivisione delle prerogative e dei poteri fra le parti processuali, e che la terzietà del giudice è dunque caratteristica intrinseca ed irrinunciabile del processo accusatorio, ed in tal senso unica garanzia della sua efficienza e della sua funzionalità. Garanzia, in particolare, del funzionamento di quella macchina gnoseologica, la più moderna e la più efficace di cui disponiamo, costituita dal contraddittorio.
In questa ottica si vede bene come la separazione delle carriere di giudice e di accusatore non sia affatto un fine, ma esclusivamente un mezzo - ragionevole e praticabile - per raggiungere l’indispensabile obiettivo della terzietà del giudice, e come esso debba essere dunque correttamente valutato, non come un fine, ma solo come un mezzo per raggiungere il risultato politico di un necessario e più alto equilibrio ordinamentale.

Roma, 28 aprile 2015

   

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