29/03/2021
Mandato di Arresto Europeo: la Corte europea dei diritti dell'uomo precisa gli ambiti di applicazione della presunzione di protezione equivalente in materia di esecuzione di MAE con possibile violazione dell'art. 3 CEDU.

L’Osservatorio Europa UCPI segnala per l'importante valore la sentenza resa il 25 marzo 2021 dalla Quinta Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Bivolaru e Moldovan c. Francia (ric. n.  40324/16 e 12623/17) che ha chiarito le condizioni di applicazione della presunzione di protezione equivalente in casi che riguardano l'esecuzione di Mandati di Arresto Europei, individuando limiti e condizioni per la valutazione e la eventuale sanzione delle violazioni della CEDU, intesa quale strumento costituzionale di ordine pubblico europeo, nel contesto della cooperazione giudiziaria UE.

Si ringraziano per la stesura del documento con le considerazioni in prima lettura gli Avv.ti Amedeo Barletta, Federico Cappelletti e Marina Silvia Mori dell’Osservatorio Europa UCPI.

 

La Corte europea dei diritti dell’uomo precisa gli ambiti di applicazione della presunzione di protezione equivalente in materia di esecuzione di MAE con possibile violazione dell’art. 3 CEDU.

Importante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che torna sulla complessa questione relativa alle condizioni di applicazione della presunzione di protezione equivalente in questioni riguardanti l’applicazione di diritto UE (nel caso di specie la vicenda riguarda l’esecuzione di un mandato di Arresto Europeo).

Con sentenza del 25 marzo 2021, la Corte europea ha riconosciuto la violazione da parte della Francia dell’art. 3 della Convenzione in relazione al ricorso introdotto dal Signor Codrut Moldovan (ricorso 12623/17) e ha escluso la sussistenza della medesima violazione in relazione al ricorso introdotto dal Signor Gregorian Bivolaru (ricorso 40324/16). Entrambi i ricorsi riguardavano l’esecuzione di MAE richiesti dalla Romania alla Francia per la consegna a fini di esecuzione pena dei due ricorrenti. La sentenza è particolarmente significativa perché esamina, come detto, le condizioni relative all’applicazione della presunzione di protezione equivalente, in generale e specificamente in materia di condizioni di detenzione.

Ricorso Moldovan

Il signor Moldovan era stato condannato dal Tribunale di Mures (Romania) a sette anni e sei mesi di reclusione nel giugno 2015, per traffico di esseri umani commesso nel 2010 in Romania e in Francia. Tornato in Francia dopo il processo, il 29 aprile 2016 le autorità rumene emettevano un MAE al fine di eseguire la pena detentiva. Nel giugno 2016 il ricorrente, sottoposto all’obbligo di firma settimanale presso la stazione di polizia di Clermont-Ferrand, veniva fermato con notifica del MAE. Davanti alla Camera Investigativa della Corte d'Appello di Riom, il ricorrente sosteneva che la sua consegna non potesse essere concessa senza l’ottenimento di informazioni supplementari sulle condizioni della futura detenzione in Romania. All’esito delle informazioni ottenute dalle Autorità rumene, la Camera Investigativa riteneva, con una sentenza emessa il 5 luglio 2016, che non ci fosse alcun ostacolo alla consegna del signor Moldovan. Il ricorso in Cassazione veniva respinto il 10 agosto 2016. Il 26 agosto 2016, il ricorrente era consegnato alle autorità rumene in esecuzione del MAE.

Ricorso Bivolaru

Il signor Bivolaru, leader di un movimento spirituale di yoga dagli anni 1990, era stato oggetto di un procedimento penale in Romania nel 2004; raggiungeva la Svezia nel 2005 dove chiedeva asilo politico e dove gli veniva concesso un permesso di soggiorno permanente come rifugiato. Con una sentenza del 14 giugno 2013, l'Alta Corte rumena lo condannava in contumacia a sei anni di reclusione per il reato di rapporti sessuali con un minore. Il 17 giugno 2013 il Tribunale della contea di Sibiu emetteva un MAE esecutivo nei confronti del ricorrente. Nel febbraio 2016 il signor Bivolaru era arrestato a Parigi mentre viaggiava sotto falsa identità. Davanti alla Camera Investigativa della Corte d'Appello di Parigi, il ricorrente si opponeva all'esecuzione del MAE, sostenendo che lo status di rifugiato concesso dalla Svezia e i motivi politici e religiosi della sua condanna in Romania lo avrebbero esposto a trattamenti inumani e degradanti e, quindi, avrebbero costituito un ostacolo assoluto alla sua consegna. La Camera richiedeva ulteriori informazioni. Le autorità svedesi precisavano di non avere avviato alcuna procedura per ritirare lo status di rifugiato del signor Bivolaru. L'8 giugno 2016, la Camera ordinava la consegna del signor Bivolaru alle autorità giudiziarie rumene, considerando, tra l'altro, che la consegna era stata richiesta allo scopo di eseguire una condanna per un reato ordinario e ritenendo che le affermazioni del ricorrente di essere stato condannato a causa delle proprie opinioni politiche non avessero alcun supporto probatorio. Stabiliva inoltre che non spettava alla Corte indagare se il ricorrente corresse un rischio reale di trattamento inumano o degradante a causa delle condizioni di detenzione in Romania. La Corte di Cassazione respingeva il ricorso con una sentenza del 12 luglio 2016, ritenendo che lo status di rifugiato concesso dalla Svezia non impedisse l'esecuzione del MAE. Il 13 luglio 2016 il signor Bivolaru chiedeva, sulla base dell'articolo 39 del regolamento della Corte, una sospensione dell'esecuzione dell'ordine di consegna alle autorità rumene. Il 15 luglio 2016 la Corte rigettava la richiesta di misure provvisorie. Una settimana dopo, il signor Bivolaru era consegnato alla Romania in esecuzione del MAE; veniva successivamente rilasciato a seguito di concessione della liberazione condizionale il 13 settembre 2017.

Secondo la Corte europea, nell'applicazione del diritto internazionale gli Stati contraenti restano soggetti agli obblighi che hanno assunto aderendo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Una misura presa in esecuzione di obblighi giuridici internazionali deve essere considerata giustificata se l'organizzazione internazionale in questione accorda una protezione dei diritti fondamentali equivalente o paragonabile a quella prevista dalla Convenzione. Se si ritiene che l'organizzazione offra una protezione equivalente, si deve presumere che gli Stati rispettino i requisiti della Convenzione quando eseguono gli obblighi legali derivanti dalla loro appartenenza all'organizzazione.

Nella sentenza la Corte precisa che il proprio compito è di verificare se le condizioni per l'applicazione della presunzione di protezione equivalente siano soddisfatte nelle circostanze del caso concreto.

In tal caso, la Corte deve assicurarsi che l'autorità che esegue il MAE abbia verificato che la sua esecuzione non comporti una manifesta inadeguatezza della protezione dei diritti della Convenzione. Se, invece, le condizioni per l'applicazione della presunzione di protezione equivalente non sono tutte soddisfatte, la Corte deve esaminare il modo in cui l'autorità giudiziaria di esecuzione ha proceduto, al fine di accertare se esistesse un rischio reale e individualizzato di violazione dei diritti protetti dalla Convenzione in caso di esecuzione del MAE.

Le due condizioni per l’applicazione della presunzione di protezione equivalente sono:

  • L’assenza di qualunque margine di discrezionalità in capo alle autorità statali;
  • L’estrinsecazione massima del meccanismo di controllo previsto dal diritto dell’Unione.

    In relazione al ricorso Moldovan, le conclusioni della Corte sono le seguenti.

Per quanto riguarda la prima condizione per l'applicazione della presunzione di protezione equivalente, ossia l'assenza di un margine di manovra per le autorità nazionali, la Corte rileva che l'obbligo giuridico dell'autorità giudiziaria che esegue il MAE deriva dalle disposizioni pertinenti della decisione quadro 2002/584/GAI, come interpretate dalla CGUE dopo Aranyosi e Căldăraru.

Secondo la giurisprudenza della CGUE, l'autorità giudiziaria di esecuzione era autorizzata a derogare, in circostanze eccezionali, ai principi di fiducia e di riconoscimento reciproco tra Stati membri, rinviando o addirittura, se del caso, rifiutando l'esecuzione del MAE. Quando l'esecuzione del MAE è in discussione perché esponeva il ricorrente al rischio di essere detenuto in Romania in condizioni contrarie all'articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali, spettava all'autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione valutare la realtà delle carenze sistemiche dello Stato membro emittente denunciate dal ricorrente e poi, eventualmente, procedere a un esame concreto e preciso del rischio individuale di trattamenti inumani e degradanti cui sarebbe stato esposto in caso di consegna.

La Corte rileva la convergenza, per quanto riguarda la caratterizzazione di un rischio individuale reale, tra i requisiti stabiliti dalla CGUE e quelli derivanti dalla propria giurisprudenza. Ne consegue che l’autorità giudiziaria francese avrebbe dovuto rifiutare l'esecuzione del MAE se, al termine dell'esame sopra descritto, avesse ritenuto che vi fossero seri e comprovati motivi per ritenere che il ricorrente avrebbe corso un rischio reale, in caso di consegna, di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti a causa delle sue condizioni di detenzione.

Tuttavia, il potere dell'autorità giudiziaria di valutare i fatti e le circostanze e le conseguenze giuridiche che ne derivano è esercitato nel quadro rigorosamente definito dalla giurisprudenza della CGUE e al fine di garantire l'adempimento di un obbligo giuridico nel pieno rispetto del diritto dell'Unione, vale a dire l'articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali, che fornisce una protezione equivalente a quella dell'articolo 3 della Convenzione. In tali circostanze, non si può ritenere che l'autorità giudiziaria dell'esecuzione disponga, per assicurare o rifiutare l'esecuzione del MAE, di un margine di manovra autonomo tale da comportare la non applicazione della presunzione di protezione equivalente.

Per quanto riguarda la seconda condizione di applicazione, vale a dire il dispiegamento di tutte le potenzialità del meccanismo di controllo previsto dal diritto dell'Unione, la Corte rileva che, tenuto conto della giurisprudenza della CGUE, non sussiste alcuna problematica significativa relativa all'interpretazione della decisione quadro e alla questione della sua compatibilità con i diritti fondamentali che renda necessario sottoporre alla CGUE una questione pregiudiziale. Anche la seconda condizione per l'applicazione della presunzione di protezione equivalente deve quindi essere considerata soddisfatta. Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che la presunzione di protezione equivalente sia applicabile nel caso di specie.

La Corte provvede quindi a verificare se la protezione dei diritti garantiti dalla Convenzione sia viziata nel caso di specie da un'inadeguatezza manifesta in grado di confutare tale presunzione, nel qual caso il rispetto della Convenzione come "strumento costituzionale di ordine pubblico europeo" in materia di diritti dell'uomo prevarrebbe sull'interesse della cooperazione internazionale. Per fare ciò, la Corte deve verificare se le autorità nazionali fossero o meno in possesso di una ricostruzione dei fatti abbastanza solida da concludere che l’esecuzione del MAE avrebbe comportato un rischio concreto per il ricorrente di subire trattamenti contrari all’art. 3 della Convenzione a causa delle condizioni di detenzione alle quali sarebbe stato sottoposto in Romania.

La Corte osserva, in primo luogo, che il ricorrente ha prodotto prove dinanzi ai giudici nazionali di carenze sistematiche o diffuse all'interno degli stabilimenti penitenziari dello Stato di emissione. Rileva il carattere serio e preciso delle prove che ha presentato, prima alla Camera Investigativa e poi alla Corte di Cassazione, indicando le carenze del sistema carcerario rumeno e, in particolare, del carcere di Gherla, dove le autorità rumene intendevano collocarlo. Alla luce degli elementi forniti nel corso di tale scambio di informazioni, l'autorità giudiziaria di esecuzione ha ritenuto che l'esecuzione del MAE in questione non comportasse alcun rischio di violazione dell'articolo 3 nei confronti del ricorrente. La Corte ritiene che l'autorità dello Stato di esecuzione fosse in possesso di una base fattuale sufficiente per riconoscere l'esistenza di un tale rischio.

In primo luogo, la Corte ritiene che le informazioni fornite dallo Stato di emissione non siano state sufficientemente esaminate alla luce della propria giurisprudenza, in particolare per quanto riguarda la situazione nella prigione di Gherla. La Corte ricorda che, nella propria giurisprudenza, una superficie di 3 m2 per detenuto in una cella collettiva costituisce lo standard minimo applicabile alla luce dei requisiti dell'articolo 3 della Convenzione. Ritiene che l'autorità giudiziaria di esecuzione disponesse di informazioni sullo spazio personale che sarebbe stato riservato al ricorrente che facevano fortemente presumere una violazione dell'articolo 3.

In secondo luogo, la Corte osserva che gli impegni assunti dalle autorità rumene riguardo ad altri aspetti delle condizioni di detenzione nella prigione di Gherla, che sarebbero stati in grado di escludere l'esistenza di un rischio reale di violazione dell'articolo 3, sono stati formulati in modo stereotipato e non sono stati utilizzati dall'autorità giudiziaria di esecuzione nella propria valutazione del rischio.

In terzo luogo, la Corte ritiene che, anche se le autorità rumene non hanno escluso la possibilità che il ricorrente potesse scontare la pena in un carcere diverso da Gherla, la precauzione presa a questo proposito dall'autorità giudiziaria di esecuzione, vale a dire la raccomandazione che il ricorrente sia detenuto in uno stabilimento che offra le stesse o migliori condizioni, non è sufficiente ad escludere un rischio reale di trattamento inumano e degradante.

La Corte ritiene quindi che l'autorità giudiziaria di esecuzione disponesse di una base fattuale sufficientemente solida, derivata in particolare dalla sua stessa giurisprudenza, per evidenziare l'esistenza di un rischio reale che il ricorrente fosse esposto a trattamenti inumani e degradanti a causa delle condizioni di detenzione in Romania e non poteva quindi basarsi esclusivamente sulle dichiarazioni delle autorità rumene. Ha concluso che, nelle particolari circostanze del caso, ci fosse una manifesta inadeguatezza della protezione dei diritti fondamentali tale da confutare la presunzione di protezione equivalente, con violazione dell'articolo 3 della Convenzione.

Diversa la conclusione della Corte nel ricorso Bivolaru.

Il ricorso riguardava sia le conseguenze dello status di rifugiato del ricorrente concesso dalla Svezia, sia le condizioni di detenzione in Romania.

Per quanto riguarda l'applicazione della presunzione di protezione equivalente, la Corte ricorda che la Corte di Cassazione francese ha respinto la domanda di pronuncia pregiudiziale del ricorrente sulle conseguenze, ai fini dell'esecuzione di un MAE, della concessione dello status di rifugiato da parte di uno Stato membro a un cittadino di uno Stato terzo che è diventato anch'esso successivamente uno Stato membro. Si tratta di una questione significativa per quanto riguarda la protezione dei diritti fondamentali da parte del diritto dell'UE e la sua relazione con la protezione offerta dalla Convenzione di Ginevra del 1951, sulla quale la CGUE non si è mai pronunciata.

La Corte ritiene che, scegliendo di non rinviare il caso alla CGUE, la Corte di Cassazione si è pronunciata senza che il meccanismo internazionale di controllo del rispetto dei diritti fondamentali, che è in linea di principio equivalente a quello della Convenzione, abbia potuto sviluppare tutto il suo potenziale. In considerazione di questa scelta e dell'importanza delle questioni in gioco, la presunzione di protezione equivalente non si applica.

Spetta quindi alla Corte controllare il modo in cui l'autorità giudiziaria di esecuzione ha proceduto, al fine di accertare se esistesse un rischio reale che, in caso di esecuzione del MAE, il richiedente sarebbe stato esposto a persecuzioni a causa delle proprie convinzioni politiche e religiose. La Corte osserva che la difesa del ricorrente si è basata principalmente dinanzi ai giudici nazionali sullo status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra e sulla regola di non respingimento prevista dall'articolo 33 della stessa, per stabilire l'esistenza di un rischio reale di trattamenti inumani e degradanti se il MAE dovesse essere eseguito. Per quanto riguarda il controllo del rispetto dell'articolo 3, la Corte osserva che la decisione quadro sul MAE non prevede motivi di non esecuzione relativi allo status di rifugiato della persona di cui si chiede la consegna. Sottolinea che la concessione dello status di rifugiato al ricorrente da parte delle autorità svedesi rivela che, all'epoca, le autorità avevano ritenuto che ci fossero prove sufficienti che egli sarebbe stato a rischio di persecuzione nel proprio paese d'origine. Per quanto riguarda il controllo, la Corte ritiene che l'autorità giudiziaria dell'esecuzione abbia considerato che lo status di rifugiato del ricorrente era un elemento che doveva prendere in particolare considerazione. La Camera Investigativa ha scambiato informazioni con le autorità svedesi per chiedere chiarimenti sullo status di rifugiato del richiedente. Le autorità svedesi hanno risposto che intendevano mantenere lo status di rifugiato del ricorrente senza tuttavia commentare la persistenza, dieci anni dopo la sua concessione, del rischio di persecuzione nel suo paese d'origine.

Nulla nel fascicolo esaminato dall'autorità giudiziaria di esecuzione o nel materiale presentato dal ricorrente alla Corte indica che, in caso di consegna, egli sarebbe ancora a rischio di persecuzione per motivi religiosi in Romania. La Corte osserva inoltre che le autorità giudiziarie di esecuzione hanno verificato che la richiesta di esecuzione del MAE non era stata emessa per uno scopo discriminatorio, in particolare a causa delle opinioni politiche del richiedente.

La Corte ritiene quindi che l'autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, dopo un esame approfondito e completo della situazione personale del ricorrente, che ha dimostrato l'attenzione prestata allo status di rifugiato concessogli, non fosse in possesso di una base fattuale sufficientemente solida per evidenziare l'esistenza di un rischio reale di violazione dell'articolo 3 della Convenzione e per rifiutare, per questo motivo, l'esecuzione del MAE.

Per quanto riguarda la questione delle condizioni di detenzione in Romania, la Corte osserva che il ricorrente si è limitato a lamentarsi, in termini molto generali, della situazione degli oppositori politici in Romania, anche in detenzione, e non delle condizioni delle carceri rumene, cosicché l'autorità giudiziaria di esecuzione non disponeva di prove sufficienti al riguardo. In queste circostanze, la Corte ritiene che la descrizione fornita dal ricorrente dinanzi all'autorità giudiziaria di esecuzione, a sostegno della richiesta di non eseguire il MAE a cui era sottoposto, delle condizioni di detenzione nelle carceri rumene non fosse né sufficientemente dettagliata né sufficientemente approfondita.

Di conseguenza, la Corte conclude che l'autorità giudiziaria di esecuzione non aveva una solida base fattuale per caratterizzare l'esistenza di un rischio reale di violazione dell'articolo 3 della Convenzione e rifiutare, per questo motivo, l'esecuzione del MAE.

Ne consegue che l'esecuzione del MAE in questione non ha comportato, secondo la Corte, una violazione dell'articolo 3 della Convenzione.

La sentenza rappresenta un ulteriore tappa nel processo di convergenza delle giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia della UE, anche nella materia della cooperazione giudiziaria penale, alla ricerca di un sistema di tutela dei diritti umani rispettoso delle specificità del processo di integrazione europea nella prospettiva auspicabile di una prossima adesione della UE alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

 

 

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