17/02/2020
DDL di riforma penale: il punto dell'Unione.

Tempi infiniti del processo, contrazione delle garanzie difensive, limitazione dell’appello, efficientismo giustizialista al posto delle regole del contraddittorio: il documento della Giunta UCPI sul D.D.L. "per l’efficienza del processo penale" e "per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti di appello".

 
Il Consiglio dei Ministri, nella seduta della notte di San Valentino, in polemica assenza dei Ministri rappresentanti di una componente della maggioranza in evidente dissenso con le norme in discussione, ha approvato il disegno di legge recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le Corti di Appello”.
 
Lo schema di legge propone un’azione random sulla disciplina di alcune delle fasi procedimentali e processuali, è privo di coerenza interna, animato da criteri di astratto efficientismo, teso ad abbreviare i tempi per giungere ad una pronuncia di primo grado attraverso l’erosione delle garanzie del giusto processo.
 
Il progetto approvato dal Governo è assai diverso dalle bozze fatte circolare nei mesi scorsi ed in particolare dalla prima stesura, approvata con la formula del “salvo intese” dal Consiglio dei Ministri, allora espressione di una parzialmente diversa maggioranza politica. Questo ultimo testo ha abbandonato ogni ipotesi di riforma dell’ordinamento giudiziario e in materia di elezioni e composizione del Consiglio Superiore della Magistratura. Ha ripudiato gli approdi cui erano giunte le rappresentanze di Avvocatura e Magistratura nell’ambito degli incontri al primo Tavolo ministeriale in materia di riti alternativi e prevede, per la prima volta, punti di delega sostanzialmente finalizzati alla sterilizzazione del processo di appello, definitivamente trasformato in un mero strumento di controllo della prima decisione, affidato in gran parte dei casi ad un giudice monocratico, addirittura non professionale. 
 
Interviene anche, con modifiche di disciplina sostanziale, sulla prescrizione recependo in toto le proposte oggetto di duro contrasto in questo ultimo periodo che, da una parte, confermano la cancellazione della prescrizione con la sentenza di primo grado, dall’altra, introducono una odiosa quanto farraginosa disciplina di distinzione tra l’assolto e il condannato che viola i principi di presunzione di innocenza e di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, oltre che il diritto dell’imputato e delle persone offese a vedere celebrato un processo in tempi ragionevoli. Peraltro, questa disciplina, essendo stata inserita del disegno di legge delega, ne subisce le tempistiche molto dilatate (i decreti legislativi devono essere adottati entro un anno dalla approvazione della legge delega) così da perpetuare la totale abolizione della prescrizione che vorrebbe in qualche modo mitigare.
 
Il disegno di legge rinnega la attività di interlocuzione che pure vi era stata presso il Ministero della Giustizia e che aveva condotto le rappresentanze di tutti gli operatori a proporre sintesi di segno opposto rispetto a questa delega. 
 
Esso segna un grave arretramento sul piano della cultura giuridica, privilegia un’idea meramente  efficientista del processo penale, perde di vista la centralità dell’accertamento probatorio dibattimentale, conculcando le garanzie della difesa e le regole del contraddittorio, scommette definitivamente sull’imputato colpevole, identificato con la preda che non può sfuggire al castigo piuttosto che con la persona sottoposta ad un accertamento di responsabilità penale il quale, per essere socialmente condiviso, deve giungere alla definitività della pronuncia attraverso un percorso costellato di regole che disciplinano il confronto tra le parti dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale. 
 
Nel dettaglio:
 
1. All’articolo 2, dalla lettera a) alla lettera i), si assiste al tentativo di disegnare, fuori da ogni concertazione, un improbabile processo penale telematico. Le previsioni sono estremamente vaghe, con rimandi a successivi decreti del Ministro della Giustizia per l’individuazione di specifici atti e modalità da inserire in tale nuovo regime. Nessuna previsione volta a garantire condizioni di parità dei soggetti del processo.
 
2. È assolutamente generica l’individuazione della modalità con la quale si intenda garantire alla persona sottoposta a processo penale, priva di difesa fiduciaria, l’effettiva conoscenza non solo del procedimento ma anche del definitivo atto di accusa a suo carico (articolo 2, lettera l)). Il tentativo è quello di recuperare le zone grigie della disciplina del processo in absentia, della quale evidentemente non si condivide l’ispirazione. La concessione “sindacale” per cui l’omessa o ritardata comunicazione all’assistito dovuta al fatto di quest’ultimo non costituisce per l’avvocato inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato è un non senso, giacché se l’omissione deriva dal fatto dell’assistito, alcun rimprovero potrebbe essere mosso al difensore.
 
3. Va segnalato come, nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri, si introduca una diversa strutturazione (articolo 3, lettera a)) che attiene ai parametri per la richiesta di archiviazione: mentre le precedenti bozze facevano riferimento ad un giudizio di inidoneità, al fine di sostenere l’accusa in giudizio, degli elementi raccolti, la nuova formulazione prevede che il Pubblico Ministero “chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari risultano insufficienti, contraddittori o comunque non consentono una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria in giudizio”. Così formulato, il punto di delega non intende misurarsi con il tema della completezza delle indagini (chi ha compiuto indagini insufficienti?); il criterio della ragionevolezza, affidato alla richiesta della parte, si rivela una formula di stile destinata a legittimare la soggettivizzazione dei parametri di decisione. Peraltro, la descritta disciplina porterà ad un significativo aumento dei casi di opposizione alla richiesta di archiviazione, affidando alla parte privata l’indicazione dei ritenuti necessari approfondimenti istruttori. 
 
4. Lungi dal divenire certa la durata delle indagini, si individuano conseguenze all’inattività del Pubblico Ministero rilevanti solo sul piano disciplinare, prive di qualsiasi sanzione rispetto al procedimento e ai tempi dell’azione. In ogni caso, il presidio della sanzione disciplinare ai termini delle indagini (articolo 3, lettere c) e g)) è privo di effettività come ha dimostrato la modifica dell’art. 407 comma 3 bis c.p.p., mai applicata dalla magistratura. Anche la discovery prevista dalla lettera e) del citato articolo 3 resta fine a sè stessa, non essendo finalizzata ad un contraddittorio dinanzi a un Giudice terzo; peraltro, la negligenza rilevante ai fini disciplinari è solo quella inescusabile. 
 
5. È incostituzionale la scelta di consegnare all’Ufficio del Pubblico Ministero l’individuazione di criteri di priorità, al fine della selezione delle notizie di reato da trattare (articolo 3, lettera h)). Solo il Parlamento può essere legittimato a regolare il sistema penale con decisioni fondate su trasparenti criteri di politica giudiziaria. L’unico temperamento al principio di obbligatorietà dell’azione penale che il nostro ordinamento può recepire non può che essere quello che riserva al potere legislativo il compito di regolare il sistema penale con regole fondate su trasparenti criteri di politica giudiziaria.
 
6. Alle consultazioni tenutesi al Tavolo aperto presso il Ministero della Giustizia si era realizzata una convergenza di proposte delle rappresentanze dell’Avvocatura e della Magistratura finalizzate a contenere i tempi necessari alla celebrazione del dibattimento e a ridurre il numero di cause da trattare con le forme del rito ordinario: maggiore estensione dei casi di accesso ai riti speciali, effettività della funzione di filtro dell’udienza preliminare. L’Unione aveva poi previsto interventi per rendere certi i tempi dell’indagine, consentire il controllo del Giudice sul momento di iscrizione nel registro delle notizie di reato, il ricorso alla sanzione della inutilizzabilità per gli atti compiuti fuori termine, la decadenza quale sanzione per l’azione tardiva. 
 
Con il DDL si interviene sulla regola di giudizio per l’esito dell’udienza preliminare (articolo 3, lettera i)), ma è con l’articolo 4 che il tradimento degli approdi del Tavolo diviene evidente, non favorendo certamente la definizione dei procedimenti penali nelle forme dei riti speciali. Basti pensare che se da una parte si prevede un apprezzabile aumento della pena che può essere oggetto di accordo, dall’altra si amplia il novero delle preclusioni, differenziando il limite edittale in relazione a singole fattispecie, sostanzialmente prevedendo, per i reati del nuovo decalogo, un incomprensibile aumento delle pene in concreto. 
 
Il disegno di legge abbandona poi la novità centrale della proposta congiunta di Avvocatura e Magistratura in punto di ammissibilità delle richieste probatorie caratterizzanti il giudizio abbreviato condizionato (articolo 4, lettera b)). Il riferimento, diversamente dalle precedenti bozze, non è più ai concetti di rilevanza, novità, specificità della prova o del tema di prova, ma a quelle situazioni nelle quali “l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce una economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale”. In buona sostanza, si recupera l’idea del rito abbreviato esclusivamente come rito di colpevolezza. La riproposizione dei criteri di decisività e di economia processuale sottraggono alla parte l’iniziativa, connotando ancor più il rito quale accettazione delle fonti probatorie d’accusa anziché valorizzarne la natura di rito cognitivo.  
 
7. All’articolo 5, la delega prevede per il dibattimento ulteriori erosioni delle garanzie e delle prerogative della difesa: 
 
a. La reintroduzione della relazione illustrativa delle parti sulla richiesta delle prove è un evidente modo per recuperare la supremazia dell’organo di accusa e per onerare ancor più la difesa in ordine alla specificazione del criterio di rilevanza delle proprie indicazioni istruttorie. Si prefigura il ritorno ad una disciplina inquinata dall’inquisitorio, ripristinando l’originaria previsione dell’articolo 493 c.p.p., che è stato modificato in ossequio al principio di parità tra le parti enunciato nell’articolo 111, comma secondo, della Costituzione. Dalla preliminare relazione giustificativa delle prove, infatti, non può che discendere la posizione di subalternità della difesa, chiamata a muoversi spesso in una funzione negatrice dell’accusa e non necessariamente alla proposizione di una ricostruzione alternativa. Con il concreto rischio per cui la relazione illustrativa del pubblico ministero diventi lo strumento per anticipare e rappresentare al giudice gli esiti probatori dell’indagine preliminare, assunti senza contraddittorio, così da svuotare di contenuto il principio cardine del processo accusatorio per il quale la prova si assume in dibattimento davanti al giudice. Nella stessa direzione si muove la previsione di cui all’articolo 5, lettera c). La modifica, nell’intento di garantire efficacia unilaterale alla rinuncia, finisce per violare un principio fondamentale in materia di contraddittorio per cui “la prova, una volta ammessa, è sottratta alla disponibilità di chi l’ha richiesta e diventa patrimonio di tutte le parti coinvolte nella vicenda processuale …”. 
 
b. Con la previsione di cui all’articolo 5, lettera e) si assesta un autentico colpo di grazia al principio di immediatezza, già ampiamente ridimensionato dalla recente giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Per un verso, infatti, si va anche oltre i ragguagli della Consulta che, nella sentenza n. 132/2019 aveva comunque ravvisato l’esigenza di stabilire quantomeno la videoregistrazione delle deposizioni quale “calmiere” all’omessa rinnovazione dibattimentale; per altro verso, si supera anche l’indirizzo restrittivo, ma non del tutto abdicativo del diritto alla rinnovazione del dibattimento, seguito dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 41736/2019 (Bajrami), la quale ha comunque lasciato aperta la possibilità per la parte di chiedere la riassunzione delle prove dichiarative indicando le ragioni che impongano tale rinnovazione. La delega sul punto è incompatibile con l’art. 111 della Costituzione che riconosce alle parti il diritto di escutere i Testimoni davanti “al” Giudice, cioè allo stesso giudice incaricato della decisione di merito. La ragionevole durata del processo e l’efficiente amministrazione della giustizia penale non sono interessi in grado di entrare in bilanciamento con quel diritto fondamentale, poiché ciò che rileva è esclusivamente la ragionevole durata del “giusto processo”, ossia: i tempi di celebrazione del dibattimento vanno considerati, nell’ottica di un loro contenimento, soltanto una volta assicurata  la completezza delle garanzie della difesa (Corte Cost. n. 317/2009) mentre la modifica progettata farebbe ricadere ingiustamente sull’imputato disfunzioni esclusivamente addebitabili all’apparato giudiziario. Quanto alla previsione della impugnabilità dell’ordinanza di rigetto della richiesta ai sensi dell’articolo 190 bis c.p.p., poi, appare evidente che si tratta di rimedio irrilevante potendolo esperire solo unitamente all’impugnazione della sentenza già emessa. Né varrebbe in tal caso appellarsi alla sanzione imposta dall’articolo 525, comma 2, c.p.p. secondo cui alla deliberazione concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento. Invero, codificando espressamente la regola per la quale il processo prosegue al mutare di uno dei componenti del collegio si finisce, di fatto, per atrofizzare la stessa previsione sanzionatoria stabilita nella disposizione suddetta.
 
c. Quanto alla udienza “preliminare” prevista dinanzi al Tribunale monocratico dall’articolo 6, la previsione che il giudice del dibattimento sia chiamato ad assumere i provvedimenti preliminari sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero si risolve nell’introduzione di elementi tipici del rito inquisitorio e in un evidente condizionamento della successiva decisione di merito.
 
8. Lo schema di decreto interviene poi, con l’articolo 7, sulla disciplina del grado di appello, sostanzialmente limitando la portata cognitiva del giudizio e sterilizzandone la funzione. La reintroduzione dello specifico mandato necessario per impugnare è certamente contraria al principio della unicità del diritto di impugnazione ed alle prerogative del difensore. È evidente che il ripristino di una norma abrogata dalla legge di attuazione dei principi del giusto processo, in ossequio all’articolo 111 della Costituzione, mira al superamento del principio del favor impugnationis e a semplificare, in una logica di bieco efficientismo, garanzie formali che assistono le prerogative delle parti processuali, generando elevatissimi rischi di esecuzioni di sentenze emesse nei confronti di imputati ignari. 
 
La previsione della competenza della Corte di Appello in composizione monocratica (articolo 7, lettera f)), peraltro estesa a tutti i procedimenti a citazione diretta, è negazione del valore della collegialità, vieppiù grave se si considera che questa garanzia (contro le decisioni arbitrarie del singolo) è ancora più necessaria quando non vi sia stata in primo grado. La scelta, in ogni caso, è destinata a scontrarsi con i limiti dell’organizzazione della macchina giudiziaria, richiedendo per la sua attuazione l’impiego di un numero di cancellieri, di ausiliari del giudice, di aule per l’udienza incompatibile con le strutture e le risorse disponibili, anche tenendo conto delle nuove destinazioni previste nella proposta di riforma (articolo 16).
 
9. Ciò che rende, se possibile, la previsione della composizione monocratica del Giudice di appello ancor più inaccettabile sono le misure straordinarie per la definizione dell’arretrato presso le Corti di Appello (articolo 15). In buona sostanza si disegna uno scenario per cui cinquecento onorari sarebbero chiamati a comporre le Corti penali; si tratta di persone che in larga misura non hanno avuto alcuna pregressa esperienza di dibattimento penale – in qualità di giudici – in giudizi di primo grado (ex professori universitari, avvocati cancellati dall’albo) o di magistrati ottuagenari. Questi i profili professionali chiamati a valutare il materiale probatorio e la sentenza di primo grado emessa, nella ipotesi di competenza del monocratico, da magistrati spesso anch’essi onorari, quando il giudizio di impugnazione è da sempre ed in ogni ordinamento assegnato ai magistrati più esperti. La previsione, che estende al processo penale la disciplina già operativa per il processo civile, non tiene conto degli studi e delle specifiche analisi che hanno valutato l’esperienza delle Sezioni stralcio, i quali hanno dato conto della cattiva qualità delle decisioni e di come in realtà queste siano state foriere e causa di un incremento della filiera delle impugnazioni. Al solito interventi asistematici finalizzati, come la previsione del rito camerale non partecipato ex articolo 7, lettere g) e h), ad incidere sulla struttura del giudizio di appello e sul ruolo del giudice superiore. Ciò che la delega prefigura è una contrazione della funzione del gravame che, nel mortificare la collegialità, privilegia il controllo della prima decisione a discapito del diritto dell’imputato ad un secondo giudizio di merito.
 
10.  Gli articoli 12 e 13 introducono una previsione dei termini di durata del processo priva di sanzione processuale. Contrariamente alla propaganda politica che si è fatta sul punto, si tratta di un mero incentivo, niente di più di una moral suasion, peraltro destinata a scontrarsi con il concreto carico dell’amministrazione giudiziaria. Le ipotesi di responsabilità disciplinare che eventualmente ne discenderebbero, oltre a non svolgere alcun ruolo di presidio della disciplina, risultano incomprensibili per come costruite, non relativamente al singolo caso giudiziario, ma alla complessiva gestione dei carichi degli Uffici. Far seguire alla mancata celebrazione del processo solo una conseguenza disciplinare per il magistrato significa concepire il processo penale come una questione interna tra lo Stato ed il magistrato, anziché un’attività che vede al centro la persona. Grave la previsione che i termini di durata dei processi, disciplina che non integra affatto una ipotesi di “prescrizione processuale”, sia affidata a interventi derogatori del Consiglio Superiore della Magistratura. Ha comunque dell’incredibile che il tendenziale rispetto dei termini di fase sia affidato ad iniziative della difesa volte ad una “anticipata” definizione del giudizio, peraltro possibili solo a termine di fase scaduto. 
 
11. Lo schema introduce poi, all’articolo 14, una rivisitazione della disciplina sulla prescrizione, ferma restando la sua sostanziale abrogazione con la sentenza di primo grado. Il meccanismo che differenzia il trattamento a seconda che l’imputato sia stato condannato in primo grado o assolto viola principi costituzionali della presunzione di innocenza e dell’eguale trattamento di ogni cittadino dinanzi alla legge. Si tratta di un’ipotesi sciagurata, che ancora una volta scommette su una presunzione di colpevolezza, consentendo all’imputato assolto in secondo grado di eventualmente opporre nel giudizio di cassazione o di rinvio, a seguito di annullamento della pronuncia assolutoria, l’intervenuta prescrizione in luogo di un tardivo pronunciamento di condanna. Ora, mettere mano al sistema delle impugnazioni non può che comportare, in ossequio alla regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, l’abolizione dell’appello di accusa. Solo in questa ipotesi può assumere significato una discussione che preveda diversi limiti per la prescrizione sostanziale, accompagnata da una previsione di prescrizione dell’azione che individui tempi certi, assistiti dalle sanzioni processuali di inammissibilità e decadenza per garantirne l’effettività.
L’Unione delle Camere Penali Italiane ha partecipato al Tavolo voluto dal Ministro Bonafede con spirito critico ma anche con disponibilità alla discussione. Avevamo subito chiarito come l’intervento riformatore non potesse che essere limitato a misure in grado di incidere sulla durata dei processi, ferme restando le garanzie difensive e facendo leva su di un forte rilancio dei riti alternativi e sul ripristino di una regola sostanziale atta a garantire la funzione di filtro dell’udienza preliminare. Tali aree di intervento furono condivise dalla Magistratura associata, compresa la imprescindibile valutazione di un parallelo processo di depenalizzazione.  
 
Nel tempo dei giustizialisti al potere, prima l’idiosincrasia nei confronti della funzione dei riti alternativi, con il loro corollario di premialità e poi, con la nuova maggioranza di Governo, nuove storture ed erosioni delle garanzie difensive, l’attacco al giudizio di appello hanno accompagnato la deriva populista che vuole realizzare il processo infinito ed individua nel carcere l’unico trattamento sanzionatorio possibile.
 
È a questo disegno che l’Avvocatura è chiamata a resistere, in difesa dei principi del diritto penale liberale e del giusto processo. 
 
Roma, 17 febbraio 2020
 
La Giunta